“Concepibili combinazioni nella figura di Aracoeli nell’omonimo romanzo di Elsa Morante”, saggio di Carmen De Stasio

Ricondurre Elsa Morante e la sua penna, la donna e l’artefice delle sue parole, a una condensazione pressoché esplicabile sollecita l’immagine di un’identitaria personalità che, nel confluire nell’unicità di immaginazione e di condizioni di memoria, si predispone nell’audace autonomia di un mosaico di alterazioni elaborate fino a comprendere – possibilmente – la gran parte delle fasi di un tempo di contemporaneità. E queste fasi complesse vengono da Elsa Morante continuamente interrogate in un’articolata vicenda che ripaga avverso la rassegnazione.

Io fui pronto a servirla, ammirato della sua bruttezza meravigliosa, che irradiava su di me un potere d’incantesimo, tanto più malioso perché mi sapeva di paura[1].

Giustappunto in questo modo è possibile individuare nella fenice e nella cenere le espressioni di fine e di recupero dei versanti intrapresi nel tentativo di riunire le idee molteplici al termine della nuova lettura di Aracoeli, romanzo sofferto e ultimo di Elsa Morante (fu, infatti, pubblicato nel 1983, vale a dire poco prima della morte dell’autrice, avvenuta nel 1985); un’eroica impresa[2] (come il poeta Attilio Bertolucci definì il romanzo) assimilabile a un’eredità sociale e culturale sulla quale Elsa Morante poggia  la sua attenzione, trattando di un tempo proiettato nel carico di illusorie speranze, le stesse che ritroviamo avversate, infine, dalle ombre che invadono lo scenario esistenziale.

Riservata e intimamente partecipe, la scrittura di Aracoeli affonda in un ambiente che è mentale e aggrovigliato con il realismo del dolore nascosto, laddove le asprezze non riescono a soffocare la cruda ambivalenza di un esserci logorato tanto da attese, che da un convulso disorientamento a cui pure si assomma un tracciato familiare che alita nel sospetto di qualcosa di irrimediabilmente irrisolto. D’altronde – ancora una volta riprendendo quel che scriveva A. Bertolucci – l’autrice non dissimula la sua attitudine di spietato critico dell’istituzione famigliare[3]. Difatti, più che nei precedenti romanzi, qui la prospettiva autorale penetra i caratteri di instabilità delle relazioni alle quali accede intraprendendo una rotta che tocca la singolarità identitaria, le tappe del divenire, il circuito di famiglia, fino a richiamare una storia condivisa e plurima nelle sue sfaccettature. Ciascun momento diviene pertanto occasione per un ritorno e una comprensione di amplificazione oppure di dirottamento, in un incessante manifestarsi-eclissarsi nella prospettiva inattesa della dilagante irregolarità che investe il dentro-fuori del tempo (siamo nel pieno della seconda e finale fase del secolo breve); nel turbamento che il significato di essere e di agire in forma di famiglia provoca. Realistico e originale, pertanto, Aracoeli vive la consapevolezza della difformità esiziale alla quale la stessa Morante partecipa, sempre in bilico tra l’emozione dei mezzi e le complessità che identificano lei-autrice e lei-donna critica di un tempo (il suo) scansionato e revisionato, in un’azione incrociata di avvicinamento-distanziamento.

Potrebbe essere questo motivo alla base della sofferta gestazione del romanzo, nel quale vicende cruciali della storia contemporanea (gli anni trenta, gli anni della Guerra Civile in Spagna e del Secondo Conflitto Mondiale; anni di cambiamenti dalle scomposte conseguenze a carattere sociale, di costume, della cultura) sono riportate al contemporaneo 1975, l’anno, cioè, da cui evolve l’intera narrazione nel rituale di una nenia, segnando passi di apprendimento, di comprensione, di alternative e di risposte che tardano ad arrivare, nell’intuizione di un disfacimento inarrestabile di ideali, che pure investe di dissenso l’orizzonte di un progresso fatuo. I protagonisti e la storia stessa di Aracoeli mimetizzano il disfacimento e nella prevalenza turbinosa di dentro-fuori l’epica dei protagonisti prende forma: un’Aracoeli (dalla quale il romanzo prende il titolo o, quant’è più efficace, l’intestazione assimilabile a una segnaletica dispensatrice di obliquità, quanto di inafferrabili ovvietà) allusiva di una storia umana in disgregazione; e poi, sull’altro versante, il di lei figlio Manuele: ed è nel progetto di viaggio che la vicenda si compie; un viaggio inteso a interpretare la rivelazione delle radici di Aracoeli, per giungere a risolvere il male esistenziale che strazia il giovane uomo e nel quale egli ravvisa gli effetti del disfacimento. Sua è la voce che gestisce le situazioni del rammemorare, e sua è la voce che accompagna a conoscere la madre-Aracoeli. E nella sua voce risuona l’eco meditante della voce straziata dell’autrice. Penetriamo così le parole di Aracoeli: nel vagare all’interno degli impercettibili segni, quel che individuiamo da subito – e che dispone la diatesi di un tracciato che via via si ramifica e s’irrobustisce delineando la configurazione di sentimenti lancinanti dall’inizio alla fine – è il vorticoso andare avanti e indietro per flashback dalla sonorità disarmonica, nella quale la raffinata malinconia di esclusivi momenti convoglia l’ispirazione alla crudezza percepita da un Manuele avvinto nell’impegno di ricostruire il proprio tracciato nel resoconto esistenziale. Non sfugge il modo in cui la sua voce s’imprima nella tessitura scritturale, laddove insiste la lettura di un tempo che scorre in simultaneità, addensandosi nel presente rammemorante di sé-quarantatreenne – nel 1975 – in una Milano che egli vive e non vive (lavora da pochi mesi in una casa editrice): nell’immediatezza del rammemorare, il tempo disperde la linearità civica e assume la sagoma di un avvenimento quale occasione di riflessioni sovente intorpidite da divagazioni, quanto rimestate in un disegno immateriale, che egli ricostruisce in un’attualità vissuta con distacco, prigioniero nella nicchia in cui i suoi sé si amalgamano in uno straniamento avvinto in un particolare sortilegio. E quale, se non il sortilegio declinato in quel 4 novembre 1975, allorquando decide che l’emancipazione dalla sua ossessione-Aracoeli (io mi domando perfino se con questo viaggio, sotto il folle pretesto di ritrovare Aracoeli, io non voglia piuttosto tentare un’ultima, sballata terapia per guarire di lei. Frugare nelle sue radici finché s’inaridiscano sotto le mie mani, poiché di estirparle non sono capace[4]) si adatti al progetto di viaggio che lo condurrà verso l’Andalusia – luogo natio di Aracoeli – El Almendral l’unica stazione terrestre che indicasse una direzione al mio corpo disorientato[5] –. Là egli si propone di attendere risposte ai suoi quesiti – portato dai suoi sensi acuti, in un cammino all’indietro, verso il punto del principio (forse a una agnizione?)[6]. Quello il luogo in cui egli ritiene possa istruire l’immagine integrale di Aracoeli quando, fanciulla, ancora non prefigurava la svolta nell’incontro travolgente con un ufficiale di Marina (Eugenio, padre di Manuele, torinese e borghese). Descritta in forma di fulminante amore, quella svolta è per Manuele l’inizio della sua non-vita (o vita bistratta nelle aspettative). Nella progressione, quel tempo non viene mai meno.

Empirico e simbolico in un sol tempo, il disegno che Manuele configura nella sua mente permette alla figura di Aracoeli di prendere una sagomatura le cui proporzioni, quanto le prospettive e gli sfondi, emergono in un’in-presenza che annulla le sequenzialità e si affida a un equilibrio del tutto personale, sincronico ed enigmatico, affidato alle interferenze principalmente riconducibili all’impressione personale di chi parla, di chi giunge a ritenere il suo pensiero l’unico spazio possibile [<le apparenze del mondo> (scrive H. Arendt) <sono divenute un semplice simbolo delle esperienze interiori, con la conseguenza che la metafora, destinata originariamente a colmare la frattura tra l’io che pensa o che vuole e il mondo delle apparenze, va in sfacelo. Lo sfacelo si produce non perché agli «oggetti» (…) venga conferito un peso superiore, ma, piuttosto, a causa della parzialità con cui si guarda l’apparato psichico dell’uomo, le cui esperienze sono intese come detentrici di un primato assoluto>[7]]. Non basta e non è soltanto questo: in Aracoeli prende corpo l’ossessiva angoscia di un futuro in cedimento, pari allo strappo significativo che la storia subisce: eterea e altra, la storia diviene meccanismo di difesa e di protezione; strumento per intercettare le potenzialità, ma anche versante sul quale relegare manchevolezze e sottomissioni.  

In tal senso la stesura di Aracoeli è un’esperienza straziante e pone in una luce di dissolvenza il credo di Elsa Morante, la sua fede nel cambiamento – una fede nel crogiolo di un’invariabilità che pure viene a disorientare la protagonista Aracoeli. Così, dunque, mentre incontriamo Manuele nel tentativo di raccogliere frammenti per ricostruire, per il tramite di Aracoeli, i pezzi della sua vita e ricostruirsi infine, in simultaneità, percepiamo un’Aracoeli intenta a raccogliere tutto, a salvare tutto in un’unicità fresca a sé, ma tanto sfingea all’esterno. Per lei nulla è nel disvalore dell’effimero. Ed è forse quell’incessante avvicinarsi alle sezioni invisibili e non-dette, né mai rivelate, che il panorama di Aracoeli sembra dilatarsi, malgrado la sua posizione vada sempre più a restringersi e restare, infine, intrapresa nel turbine di una solitudine assoluta. A lei nessun quesito viene posto e, anzi, i quesiti mancanti sono anche causa di una probabile non-mutevolezza. Viepiù, se da un verso Manuele va lentamente emancipandosi in virtù di un’intelligenza ritrovata (L’intelligenza si dà per capire[8] – la Morante affida alla voce di Manuele) attraverso viaggi che si svolgono nella sincronicità di ricordi recuperati e di esperienze cadenzate dalla spiegazione concessa da quegli stessi ricordi, quel che ad Aracoeli si concede è l’amaro incanto di ritrovarsi in un’irrecuperabilità che traduciamo come dissoluzione di un’antica speranza. Lo scenario possibile di Aracoeli è quindi l’oscurità, un’oscurità in cui converge l’intera storia del Novecento; una storia sottintesa e pure conclamata nei continui deragliamenti; maestra e guida e, simultaneamente, storia di disgregazione nell’epica polimorfica dai segmenti anti-costruttivi, di rinuncia e di sorpassi, tant’è che a segnare la svolta è la complessità intuita in una completezza che si realizza allorquando non resta che visualizzare la misurazione di spazi che non più interloquiscono, di spazi che si ammutoliscono e che destinano la provvisorietà a totale chiusura. In quel momento Aracoeli si raccorda con la «sua» vita. Scomparsa alla vista, ella procede verso l’assoluto della sua integrità in un’in-presenza ricomposta. Presente e passato orfani del futuro, stretti in un’invisibilità priva di accesso, ma probabilmente, nemmeno tanto ricercata: Per i sani la memoria è quello che la Storia è per i popoli: maestra di vita. Ma per i malati, che non la distinguono dalla fantasia, essa è concausa di turbe e traviamenti fatali[9] – leggiamo nell’icastica sentenza che Elsa Morante esplicita per voce di Manuele. È questo a riportare sul piano allusivo una storia di trascorsi che la mente disgrega in mille scampoli, e che però, d’altro canto, dà pure misura di un lascito ereditario nell’atto di tradire per sempre le aspettative. Più e più volte Manuele lo ribadisce con parole ferali all’indirizzo della madre (E diamoci qua, stasera, la malanotte. Malanotte a te, Aracoeli, che hai ricevuto il seme di me come una grazia, e l’hai covato nel tuo calduccio ventre come un tesoro,  e poi ti sei sgravata di me con gioia per consegnarmi, nudo, ai tuoi sicari[10] – Manuele afferma con un sentimento che nell’intrico dolce-amaro richiama un moto di amore ininterrotto), lasciando che dall’affollamento di impressioni provenienti dai fatti si raggiunga la coscienza di una realtà composita di mito, di sogni e di strappi, di ir-realizzazioni, infine. In tal senso, la figura di Aracoeli esula dalla rotta del dominio esterno, e consente ai propri segni di fluire all’interno delle mutevoli complessità con un linguaggio che è a un tempo simbolico, tormentato, quanto variabile e sfuggente, in una luce che appare e scompare, dissolvendosi senza tregua. Come dire: tutto turbina in un ristagno ingrigito dall’improbabilità di ascesi e così quell’altare che ella stessa rappresenta si scardina, tendendo a disporre piani di inseparabilità non senza sofferenza.

Di fatto, su Aracoeli sembra ricadere la potenza di un impegno demiurgico che, nella gestione delle immagini percepite nel quadro di «equivalenze», Manuele adotta torcendo perifrasi iconiche di quel che è, passando da controverso inquisitore irrigidito nell’intuizione (ma, al contempo, anche flebile nell’incapacità di disfarsi dell’egemonia di un’ossessione) all’astrazione di una memoria addensata, come leggiamo in anaforico squarcio più e più volte nel libro, laddove egli rigenera Aracoeli in una figura in bilico tra picchi di esaltazione, pause attardate di isolamento, fughe e riprese, durante le quali Aracoeli accorre a me (egli rivela se stesso) dalle sue longitudini. Acquista la velocità della luce. Ha già sorpassato all’indietro il muro del suono. E non mi resta che inventare il nostro incontro. Essa ha preso forma.[11]

Lentamente, l’aniconicità di Aracoeli si presenta nel tempo narrato in mutevole cromia: in una simbiosi di iridescenza e di oscurità (per sé, innanzi tutto, e per Manuele), la sua esistenza sembra fondarsi sul principio machiavellico della norma e della forza. Così ella è norma nella comprensività diegetica del viaggio di ascesa che la conduce – per amore – dalla spontaneità avita alla nuova dislocazione (del tutto allusiva del cambiamento), componendosi in un ambiente assai distante dal proprio (laddove il pathos declina sia in tormento che in coinvolgimento) e che la coglie negli echi delle vicende mondiali, ancor più penetrando la sua esistenza quando il fratello tanto amato, Manuel, colpito a morte nel corso della Guerra Civile in Spagna, diviene forma dominante sulla sua vita di dentro. Tuttavia, se lo spostamento tra due mondi non dissuade un’Aracoeli trattenuta nell’integrità di vissuto e di intima realtà, la perdita di Manuel si soffonde di speranza (forse per via dell’abbraccio in una genuinità adolescenziale) ed ella si avvinghia al suo lutto inondandolo di metamorfosi. In fondo, ancorché nella dimensione borghese, ella resta un’immagine sacra che Manuele declina quale staffetta encantadora[12] al di là di qualsiasi distinzione tra bene e male, nemmeno quando precipita – nel secondo capitolo di vita – nelle spire del suo stesso mondo solitario a seguito dell’inspiegabile morte della secondogenita Carina poco tempo dopo la nascita: una trafittura non ambita ad alcun sacrificio, né ad alcuna intelligibile motivazione.

Refrattario al ridimensionamento della visione, dunque, il romanzo Aracoeli diviene il romanzo «di» Aracoeli, laddove una sorta di storicizzazione del carattere immaginale intraprende una vera e propria sfida alle regole di linearità: in tal senso, l’operazione culturale condotta dalla Morante (per certi aspetti di natura analitica) colloca con Aracoeli l’alternativa non solo a un’idea pressante derivata dall’esperienza personale (e, pertanto di stampo neo-realistico) in contrapposizione all’istituzione familiare – come già riportato da A. Bertolucci: il sovvertimento procede anche – se non in maniera più marcata – a contrastare, con una risposta di recupero dell’autonomia individuale, la presa di posizione che vede – in antitesi all’equilibrio ricercato della Morante – l’ispessimento di una situazione sociale temprata da un ideale pervasivo, e i cui effetti non fanno che contrarre anche il tipo di cultura a cui, invece, l’autrice affida la funzione di superare una perversa prevedibilità. In questi termini, in considerazione di una struttura tanto semantica, che affidata a un avanguardistico panorama di tipo surreale o, meglio ancora, surrealista, in una forma che, quindi, insedia l’evocatività di rimando nello sviluppo degli eventi, Aracoeli – quanto l’Aracoeli-donna – appare confermare il principio secondo il quale a consolidarsi è l’intento di scoprire una pur diversificante immagine dinamica che integra – tra le maglie del misconosciuto, quanto del dis-conosciuto – la vaporosa parvenza di un relativo tracciato. Così, la riflessione si acutizza con una coesione del tutto originale, aderendo a deviazioni rispetto a qualsiasi aspettativa. Vero è pure che la Morante scriva in un tempo in cui i pensieri esorbitano da un familismo glabro, distinguendosi con un lessico creativo certo, ma anche sovversivo, per il quale le ore, i giorni e gli anni si allungano, per poi filtrare la spirale spinta in accelerazione e ricomporre la miniatura degli eventi in una corrente di giravolte e trascinamenti, in una difformità di tipo psichedelico di tale rilevanza, da concimare un nuovo ordine anacronistico che si riscatti dai turbamenti di un tempo sconsiderato, per dire, nella perentorietà di una bugia che traghetta il nonsense di un’intera vita. Sono queste le riflessioni al termine della lettura metalogica di Aracoeli: qui, l’esperienza del lutto assoluto si concentra nella coerenza delle parole; qui, pure, l’audacia di una pennellata calibrata di vero su quella che, da (ri)conoscimento individuale, giunge a prevalere sul tutto, traslando l’icona-Aracoeli da contemplare ad un’intrepida condizione da creare. Di pari passo, ciascun’espressione infittisce un impegno che vede figurarsi nel libro lo stravolgimento del rapporto tra l’autrice e la sua vita, con uno stile che permette di sporgersi tra le spire di un’umanità imbrigliata in un Vivere percepito nel momento capitale di strappo (riprendo le parole nel libro), nel cui significato è impressa l’esperienza della separazione[13]. Da una siffatta concomitanza non si può prescindere: Aracoeli è storia di un’ambizione d’amore svincolata da qualsiasi interpretazione letterale, nella ricerca incessante di un approdo che storicizzi contesti più ampi ed indicativi di una pronunciatio da decodificare oltre la semplice descrizione; tela comprensiva di incontri tra parti controverse in una varietà depositaria di frammenti indivisi; scenario di ri-unione, di esplorazione di anfratti che soltanto se disposti al pari di un’opera artistica possono esser letti in sincrono attraverso la fuga, l’uscita di scena e i balzi spazio-temporali nel bilico di avanti e indietro, nei silenzi fruscianti e nelle ombre caleidoscopiche della tela imbrattata, nel tentativo di riconciliare le assenze, quanto i fulgori deittici di una dissolvenza. Ecco, dunque, che l’impatto potrebbe tradurre un gravido scenario impressionista, laddove, nella distanza, la vista accompagna la sagomatura per poi ravvedersi e, nell’accostamento, aver contezza che si tratti di gocce in continuo spostamento, malgrado restino per consuetudine, per effetto protettivo o per inerzia, afflitte nella tela di una predestinazione. Un luogo, per dire, la predestinazione, dal quale non sfuggono nemmeno i personaggi ivi presenti e tutt’altro che disposti a far da corollario; anzi, esistenti attraverso recuperi sferzanti, sottintesi, allucinati, sussurrati in nostalgia, in risentimento, quant’anche in struggente affezione e resi credibili nella prevalente voce dei ricordi di Manuele, ai quali costoro partecipano con una proiezione spinta in un ritroso a suo modo non proprio labirintico, per via di gradienti riversati in una presenzialità dedita allo scoprimento. Di fatti, in uno scenario pluriforme in cui i sentimenti, le sensazioni, le proiezioni, vagano prescindendo dalla centralità, seppur in una cornice vettoriale decisa e al contempo distraente, lo spartito di Aracoeli si presta quale occasione di frattura risentita dal proprio tempo e dalle sue consuetudini ed è su queste condizioni che l’autrice incide la propria disillusione: di quel tempo fitto di avvenimenti in Aracoeli v’è una traccia che, sebbene oscurata da situazioni del tutto incisive, riesce a raccogliere la memoria degli anni con uno scuotimento che rimanda ad un’altra grande regista di scrittura, Virginia Woolf, alla quale la Morante sembra legarsi per la densità sostanziale di un mondo di intuizioni, per il rifiuto a qualsiasi interferenza. Ma andiamo in ordine e il nuovo ordine (di tipo epitomico per il fatto di stringere le variabilità dei possibili dire in strettoie celate dietro espressioni misteriose originali; per il fatto di condensare nella crucialità delle parole il riflesso di grevi momenti) rimanda alla combinazione pleocroica delle espressioni nelle quali insiste il riverbero di emancipazione dall’invasivo immobilismo fondato dall’assioma simbiotico di un prologo e di un epilogo a senso unico, e che varca in permanenza la doppia direzione del passato e dello spazio[14].

La scrittrice Elsa Morante

Risalendo la corrente, tutte le conoscenze consolidano così una geografia emozionale, quanto epistemica, di relazioni diffuse in un paesaggio di cui divengono primaria intonazione attraverso una lettura che, dalla concretizzazione delle circostanze si sposta a delineare l’inquietudine di quel territorio complesso che è la protagonista parlata, muta, raffinata e, a un tempo, spavalda e, soprattutto, coesa: Aracoeli-donna nei suoi tempi e nei suoi spazi, e per la quale prende forma, appunto, la doppia direzione del passato e dello spazio. Alla luce delle scarne notizie che la propongono, e consistente di una complessità nevralgica, Aracoeli si espande al pari di «una letteratura» che – recuperando una riflessione del poeta P. Bigongiari – «è una scienza nutrita di stupori». E, in effetti, Aracoeli appare figura di integrati stupori: distante da qualsiasi tipicità, in sua vece le parole «altre da sé» edificano una memoria del tutto connaturata all’etimologia del vivere nell’atto di convogliare l’unità maieutica di materialità e di sottintesi; nell’incessante deviazione rispetto a situazioni altrimenti talora intransigenti (un segno di diversità, un titolo unico: in cui Aracoeli rimane separata e rinchiusa, come dentro una cornice tortile e massiccia, dipinta d’oro[15]). Figurando tanto quanto come «esperienza» da superare e cancellare, Aracoeli è l’encantadora in grado di dominare le polarità, quant’anche le proprie abilità intellettive nel tempo in cui (è sempre di Manuele la voce) l’intelligenza contamina i misteri: violentarli è un lavoro disgraziato, che si conclude nel guasto e nella degradazione[16]. Ad Aracoeli, dunque, è attribuito il senso di asfissia solitaria della personalità di Manuele: Manuele il solitario, Manuele il più bel bambino del mondo che rammenta l’eroico Manuel, fratello scomparso di Aracoeli, a sua volta da Aracoeli elevato all’altare della gloria. Nell’incrocio costante dei passaggi da Manuele-nel presente e da Manuel-nel suo essere eterno presente, quest’ultimo è l’enigma serafico ed eroe mai ricomposto, il cui mito esiste attraverso le fasi di una memoria accrescitiva e consolatoria che liberamente accostiamo allo sprezzante Percival – l’amico-eroicizzato al quale le sei personalità protagoniste del romanzo Le Onde[17] di V. Woolf si riferiscono e che mai in scena si presenta – ritenendo che la frattura investa non semplicemente il passato e le sue riserve, quanto il principio dell’inesattezza (ivi comprendendo l’inesattezza degli sfoggi di memoria), principio che in Aracoeli dilaga a più riprese. Tutto sembra risiedere in questo presupposto come un destino forgiato su un famelico, quanto abulico, impianto di amore; un amore raccolto in una stretta claustrofobica e che nel dettaglio è rigoroso declinare verso orizzonti indisponenti. Esaltata e demolita, la figura di Aracoeli è il centro intermittente di luce e di oscurità; figlia e madre e complice del proprio affetto rilanciato nella catena invisibile che tiene metaforicamente unito il ministrante all’incensiere. Quali le colpe, se non di un abbraccio soffocante e soffocato e che distrae dal compiere altre vite: lo stesso compagno di vita di Aracoeli, Eugenio, ne viene trafitto. La piccola Carina muore e nulla più esiste. In quello che pertanto si dispone come romanzo degli archetipi e degli antonimi in simultanea vicenda, ciascun nome s’investe di una singolare lettura docimologica; toponimo senza alcuna affatazione a legittimare l’increscioso avvedimento che nulla possa cambiare e, nonostante tutto, il tutto stesso nell’allucinata invariabilità di un’esistenza mortale predestinata al deterioramento.

In effetti, sul versante diretto a raggrumare la propria esistenza, le due individualità di Aracoeli e di Manuele affrontano la propria realtà accomunati da un essere sempre in bilico a segnare il dramma in una liturgia che va e viene in un misto di intimità e miti reverenziali[18] che accompagna (o insegue, potremmo anche osare) Manuele fino ai suoi 43 anni quando L’essere già stato complice e depositario d’altri suoi segreti era il [suo] vanto nascosto, a me tanto più prezioso perché quei segreti [gli] rimanevano, tutti, in figura di enigmi[19]. Via via quella complicità innervata di un’assolutezza filiale e materna in costante sincronia si disgrega, lasciando la desolazione di un auto-inflitto isolamento e di una solitudine refrattaria a qualsiasi ricostruzione, fors’anche per via di un’incombente e distruttiva potenza speculare, quanto speculativa, di una situazione multiforme prestata agli specchi delle parole quegli stessi specchi che Secondo certi negromanti, (è Manuele a parlare) sarebbero delle voragini senza fondo, che inghiottono, per non consumarle mai, le luci del passato (e forse anche del futuro)[20]. In una siffatta oscillazione bustrofedica concepiamo Aracoeli nell’assemblage delle sue tante vite speculari nell’ennesima assenza, l’assenza di una volontà di mascherare la direzione del suo sguardo: una spirale ottenebrata da un volgersi a ritroso non tanto per nostalgia, quanto per afferrare la causa di un dolore che si trascina e si amalgama ai nuovi dolori fino all’epilogo. Da questa immagine codificata soprattutto nel nitore iconico, pur mai comparendo di sua voce, di suoi pensieri, di sue riflessioni spontanee, Aracoeli promana nel carattere proprio del romanzo, nel suo linguaggio fetale, fortemente cromatizzato da un’empatia prepotente, malgrado la solidità dei riferimenti, anche allorquando quei riferimenti si stagliano tra infingimenti immaginari e distrazioni ricondotte a una sorta di maieutica che trasla l’azione del rammemorare a una verità, invero, solo parziale: presenza sbilanciata di solitudini in una temporalità frantumata. È in un siffatto quadro che il luogo della scrittura incide l’evocazione di una ricerca di interezza; iscrive un progetto perché si confronti con un essere vocato a volere più che a chiamarsi (ed essere) vita. Ragioniamo per assurdo: se fosse pregno di elucubrazioni, il volume Aracoeli sarebbe confortevole luogo di formazione ed invece esso aspira a farsi territorio di esplorazione fuori dall’alveo di un linguaggio provocatorio. Inoltre, laddove le parole non possono adeguatamente disporre l’immagine mentale, ecco che l’estro della Morante – creatrice di versi mai disgiunta dalla Morante-scrittrice – esilia da sé qualsiasi tentativo di assommare rassegnazione e provocazione ed è in quell’immagine riportata che il rapporto con la scrittura si fa più intenso ed intimistico: policentrica e onnicentrica in un sol tempo, l’autrice si esplicita – come Aracoeli – nelle ombreggiature interdette degli eventi; si rende presenza di una quotidianità che è trasparente e che, insieme, l’avvolge in una nube di opacità.

Quali le sospensioni, se non quelle volubili di un fronte totalmente disallineato dalle consuetudini, laddove la figura di Aracoeli si diffonde su sponde biforcate in modo da congelare un essere nei raccordi di fanciulla giammai interrotta e di un essere donna in situazioni attuali, allorquando per una decisione d’amore si ritrova in un’insormontabile distanza dalla sua religiosità, una religiosità geomorfica spontanea. In questo modo, l’inscindibilità tra le figure di Manuele e di Aracoeli ancor più rende inquieta la tela degli eventi: su una sponda è Manuele. Incatenato alle sue domande, vive la presenza di Aracoeli in un amore sfuggente; altare sacrificale e faro vitale di Woolfiana memoria e pure in questo caso intinta nella sacralità di una vita da re-imbastire in un’immedesimazione con tutti i suoi tempi, all’interno dei quali tentare di ricomporsi (Io cerco oggi di nascondere a me stesso che questa seconda Aracoeli è anch’essa mia madre, la stessa che mi aveva portato nell’utero; e che lei pure sta insediata in ogni mio tempo, schernendo la mia ridicola pretesa di ricostruirmi, di là da lei, un nido «normale»[21]); sull’altra sponda è l’Aracoeli incatenata alla presenzialità dei ricordi fatti storia di sé in uno svelamento trasferito in tempi sublunari.

A questo punto non è difficile porre l’accento su quella che ci appare l’idea portante del romanzo, un’idea che riunisce invenzione e rielaborazione esperienziale nell’organicità prestata alla vista come sintesi estrema, seguendo la concomitanza di reale e immaginale pur nelle diversità che accompagnano la semantica del pensiero. Di tal specie si carica l’impianto, che scena e proscenio (il detto relazionato a fatti di individuale percezione nella “vaganza” e nell’immediatezza temporale) coincidono in una centralità che, per i motivi addotti, si priva di richiami analogici: infatti, se da un lato attraversiamo le pagine adottando un metaforico incontro con un protagonista a sé stante quale il libro è nell’intrico gnoseologico di elementi e situazioni che conferiscono una composizione per flashback a loro modo esplicativi, possibile è altresì aprire non già un percorso realizzato a vantaggio di una comprensione per sequenze simmetriche, quanto un territorio di tracce che – rilevabili e discrete – animano un movimento ritmico da inter-leggere nella trama del territorio abitato.Non solo: la dialettica delle circostanze declina la logica preservata dalle singole parole in un’abbreviazione fuor da retorica, esulando dalla litania dei suoni attendibili nel momento in cui lo sguardo-mente si volge nel tentativo di recuperare motivazioni e accadimenti che hanno cucito a maglie strette la rotta. Il momento giunge inatteso: oramai fuori dal campo visivo, Aracoeli si trattiene nell’oscuro miracolo di una preghiera (Non lasciarmi sola più e più volte ripetuto): in quella preghiera si manifesta l’incontro dei tempi di Aracoeli; i suoi fantasmi nelle segrete della sua storia, le ostilità di recenti strappi, i mutamenti e le sensazioni, tutti si rincorrono in un presente momento di universali silenzi che stralcia la sensazione di abbandono e di confortevole passività, ubbidendo al richiamo che innesta sensazioni. E nelle parole un furore aleggia, trattenendo il desiderio amaro di recuperare i resti di una coscienza che spinge a provare più un sentimento di distacco che di avvicinamento e che, sul fronte sconnesso delle indecisioni, dell’impervio e avito dubbio, provoca un penetrante senso del tutto tattile di frantumazione perenne («mi rendo conto» – scriveva V. Woolf – «con maggior chiarezza come la vita di ciascuno sia un mosaico di pezzi e come per capire una persona occorra considerare come un pezzo sia compresso e l’altro incavato e un terzo si espanda, e nessuno sia realmente isolato»[22]). Aracoeli si ritrova ad essere investita di siffatta e ancor più disorientante instabilità: condannata al disfacimento di un’identità scolpita nella perdita, ella appare dea da adorare e adorante dentro il suo mondo animato da una storia continuamente irradiata di leggenda e di paesaggi liberi; una storia che scavalca i confini della realtà condivisa e interloquisce con lo spazio indelebile di tensioni, di dis-cromiche effusioni, di mute posture, culminando in un’alterazione che ella fronteggia, pur in apparente vulnerabilità. Dove la sua voce e la sua sensibilità – ci chiediamo. Dove sono nascoste le sue parole in quella situazione difficilissima nella quale le parole riflesse di Manuele scatenano il tracciato per lei, lo fanno in sua vece, così che Aracoeli compare senza mai appartenersi: sbilanciata pronuncia nell’altrove di una memoria critica. Ed è a questo punto che i due fronti si dissuadono: Manuele va verso una conciliazione di sé; Aracoeli non va da nessuna parte, malgrado i tentativi («Per riprendere possesso di noi stessi e delle cose in modo autentico, si deve compiere una sorta di esperimento, in solitudine e in silenzio: riprodurre la durata pura, sgretolando le resistenti concrezioni del presente, intuendo al di là del pensiero immobilizzante e del linguaggio classificatorio»[23]– leggiamo con il filosofo R. Bodei): In tal senso, il romanzo Aracoeli può esser letto come svolgimento animato da un’intuizione estesa su varie prospettive al fine di superare – fin dall’esodio, coi fili dell’equivoco e dell’impostura[24] – l’imbastitura  tra pensiero immobilizzante e qualsiasi linguaggio classificatorio. Di par suo, dunque, l’opera della Morante contiene entrambi i livelli di scompaginazione emozional-intuitiva in una situazione che, nel momento in cui la parola propositiva si accinge a segnare una rotta, d’improvviso reclama autonomia finché antinomica appare, portandosi alla sospensione sulfurea di una sosia sfigurata[25]. La prospettiva è là prima ancora che il viaggio di ricerca (o il viaggio della speranza di vita) abbia inizio, sfacciata e disturbante, dapprima in forma di una corsa per recuperare frammenti da un tempo distratto da un altrove incomprensibile (E corro dietro alla mia fedele madre-ragazza, e alla sua icona musicante, ricacciando come un’intrusa quell’altra Aracoeli fatta donna, che in realtà mi ha lasciato laidamente orfano ancor prima di esser morta[26]), e poi nella forma di una sua sosia sfigurata. L’una Aracoeli mi ruba l’altra; e si trasmutano e si raddoppiano e si sdoppiano l’una nell’altra[27]. In questa lunga fase, la narrazione procede in una dualità capricciosa: realtà e irrealtà procedono indistintamente e Aracoeli si scompone e si ricompone in un irrisolvibile processo di perdita di portata cosmica. Quel che avviene nel frattempo rimanda a uno «spazio concreto estrapolato (…) dalle cose. Queste non sono in esso, è lui ad essere in loro. Soltanto, non appena il nostro pensiero ragiona sulla realtà, fa dello spazio un ricettacolo»[28]. Orbene, nel bergsoniano ricettacolo includiamo sia lo spazio vissuto che lo spazio irreale e figurativo di cui la mente di Aracoeli si tinge, espandendosi in un’irregolarità irraggiungibile e «vera» in quella misteriosa ambiguità[29] che l’ha resa immortale[30]. Di riflesso, tanto la postura di Manuele, che l’inesprimibile variabilità di Aracoeli si confrontano negli opposti a dispetto di una simbiosi pronunciata da parole significative, quanto più scoscese nella visceralità della simbologia. Così, mentre Manuele sembra converso a rintracciare la base concreta della storia che lo avviluppa nell’astrazione materna, dagli effetti oscuri, quanto ravvisabili come predestinazione in parvenze nelle quali si cela il rituale famelico del sarto notturno, (…) che di giorno dorme appollaiato su un albero come i gufi, e di notte va in giro per le camere  di certi mortali da lui prescelti, ai quali cuce addosso, nel sonno, una camicia invisibile, tessuta coi fili del loro destino[31],  Aracoeli vive una condensazione di somiglianze, malgrado la sua interezza non venga del tutto calpestata, giacché ben peggiore è la condanna dell’invisibilità mediata da un dettato delle relazioni – (…) fatto di voce fisica (…) col suo sapore tenero di gola e di saliva[32]. Il resto di lei – Quando lei si scosta i capelli dal viso, scoprendo la fronte[33], – rimane schermato dietro una fisionomia diversa, di strana intelligenza e di inconsapevole, congenita malinconia[34]. Una malinconia intima che – non sottraendosi a un dolore (s)travolgente, sfigurando e devastando[35] la solidità del rituale – si irrigidisce su fronti connessi, ma pure distintivi: l’uno conferito nell’interezza visuale, quindi frontale e unitiva; l’altro sedimentato nell’interezza visiva, simbiotica dell’io nei suoi molteplici strati convergenti, ai quali sentiamo che corrisponda Aracoeli in una valorialità indivisa, rintracciabile in un ritmo poetico per il fatto di trovarsi composizione di più piani paradigmatici e semiotici in un’atemporalità di forze che spingono ad essere tutte le dimensioni dell’esistere nel tutt’uno del tempo, il suo.

Da tutto questo l’esaltazione finalizzata a un circuito chiuso si annulla: di fatto, la Morante dà forma a un linguaggio tutt’altro che mutilato da asprezza, anzi, proprio in Aracoeli ella matura un linguaggio ricercato tra gli squarci di una profusione che parla di sé, adagiandosi su quella che può essere considerata come alfabetizzazione di un’attitudine, un’alfabetizzazione che prende in esame le diverse età dei tempi individuali e dei tempi relazionali su binari concretizzati in maniera fluttuante e talora apparentemente – e solo apparentemente – in forma di incontro. E l’autrice annulla le fratture che potrebbero rivelare quella sua realtà interiore, quel ribollimento che si propone come verità del suo essere non già mascherandolo, quanto andando alla ricerca, ella stessa, di una parola che sia artefice di un registro sinecistico allungato a sfuggire dalla banalità. Di questo registro abbiamo traccia nell’intonazione ciclica di Aracoeli-romanzo: un piano denso di sconfitte e di lacerazioni dalla gianica espressione che – potremmo dire – sia finalizzata a ricostruire gli anelli di una catena che metta al proprio posto le cose e che, nel percorso impervio della ricostruzione, si trovi spinto – e a un tempo frenato – su una strada a senso unico, ai bordi della quale non manca tuttavia la segnaletica, malgrado si tratti di una segnaletica che però non sortisce attenzione alcuna. Epperò è qui che l’essenza di Aracoeli trasmuta in un’assenza. Ed è un’assenza che tempra l’andare controverso (e controvento, aggiungo), scorrendo in una realtà virtualizzata indispensabile alla continuità e che – sempre in continuità – si scontra con lo specchio orizzontale delle cose. Una pur inesaurita risposta potrebbe giungere da quanto scriveva W. Benjamin: «Quando il pensiero si ferma all’improvviso in una costellazione satura di tensioni, provoca a essa una scossa cristallizzandosi come monade[36]». Decise e caustiche, le parole di W. Benjamin si prestano a gestire l’intera intelaiatura della figura di Aracoeli. In essa risuona il quadro maieutico che, nel configurare la donna, lascia di lei filtrare (senza opporre alcuna rinuncia, pur al limite di una materialità etonima) le alterazioni di una geografia concepita nella dimensione del sogno surrettizio, febbrilmente impenetrabile, integrandosi nella pronuncia capitale di Elsa Morante e che si diffonde tra le pagine del libro nella voce di Manuele:

Si direbbe, in realtà, all’epilogo di certi destini, che noi stessi, per una nostra legge organica, fin dall’inizio, insieme con la vita, abbiamo scelto anche il modo della nostra morte. Solo a quest’atto finale il disegno, che ciascuno di noi va tracciando col proprio vivere quotidiano, prenderà una forma coerente e compiuta, nella quale ogni atto precedente avrà spiegazione. E sarà stata quella scelta – anche se nascosta a noi stessi, o mascherata, o equivoca – a determinare le altre nostre scelte, a consegnarci agli eventi, e a segnare in ogni movimento i nostri corpi, conformandoli a sé. Noi la portiamo scritta, indelebilmente, fin dentro ogni nostra cellula[37]

Nella dimensione tanto ergonomica, che cinestetica del romanzo, trova quindi un equilibrio la formula metonimica di un’Aracoeli persistente ad eludere il senso dell’incompiuto nell’intensità di «un universo che» – afferma E. Morin – «sfugge ai canoni della realtà»[38]. In questo modo, vediamo Aracoeli procedere nell’assunto Woolfiano di un’arte – o di una vita artistica – che si stacca dalla materialità per aspirare a una totalità invero mai raggiunta (o forse raggiunta quando non più «parlata»).  Nessuna risoluzione, se non nell’”epoca” in cui il territorio asceso si frantuma in particelle minimali, in nessi interspaziali che vive nell’incessante oscillare tra i suoi dentro e i suoi esclusivi fuori nel bisogno di sfuggire a qualsiasi cancellazione, pur essa presenza per sé e presenza di un mito persistente (Me lo insegnò Aracoeli: che non era il sole, come sembrava, a girare per il cielo; ma il mondo. Il quale era mosso da un’aria circolare perpetua, così che girava sempre, giorno e notte[39]  ̶  è la riflessione di Manuele). Prospettate in un’identità eudemonica, le emozioni si ramificano nei fatti, pur mantenendosi nell’attrazione di un incantesimo. Qui l’eudemonico movimento di Aracoeli si condensa nella pluralità dei suoi resoconti immaginali. E ancora: qui il suo essere si contrae in un’appartenenza che è richiamo e legame, condanna e desiderio lacerato, sicché il processo di emancipazione che la riguarda in intimità appare sempre più risucchiato in una sorta di auto-riduzione progressiva, simile a un cero accantonato in una cattedrale oramai chiusa.

CARMEN DE STASIO


[1] E. Morante, Aracoeli (1982), Einaudi, Torino, 2015, p. 295

[2] A. Bertolucci, Elsa in «Aritmie», Garzanti, Milano, 1991, p. 150

[3] Ibi, p. 149

[4] Aracoeli, p. 27

[5] Ibi, p. 10

[6] Ibi, p. 11

[7] H. Arendt, La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna, 2009, p. 489

[8] Aracoeli, p. 359

[9] Ibi, p. 133

[10] Ibi, p. 117

[11] Ibi, p. 358

[12] Ibi, p. 25

[13] Ibi, p. 20

[14] Ibi, p. 10

[15] Ibi, pp. 11 – 12

[16] Ibi, p. 337

[17] Cfr. V. Woolf, Le Onde, 1931

[18] Aracoeli, p. 139

[19] Ibi, p. 337

[20] Ibi, p. 12

[21] Ibi, pp. 28 – 29

[22] V. Woolf, Momenti di essere – scritti autobiografici (1976, pubblicazione postuma), La Tartaruga Edizioni, Baldini & Castoldi S.p.A., Milano, 2003, p. 38

[23] R. Bodei, La filosofia del Novecento (e oltre) (1997), Feltrinelli, Milano, 2016, p. 16

[24] Aracoeli, p. 28

[25] Ibi, p. 29

[26] Ibi, p. 28

[27] Ibi, p. 29

[28] H. Bergson, Il possibile e il reale (Saggio pubblicato in rivista svedese «Nordisk Tdskrift» nel novembre 1930) – a cura di A. Branca, Edizioni AlboVersorio, Milano, 2014, p. 19

[29] Aracoeli, p. 34

[30] Ibi

[31] Ibi, p. 52

[32] Ibi, p. 11

[33] Ibi, p. 14

[34] Ibi

[35] Ibi, p. 350

[36] W. Benjamin, Sul concetto di storia – Il manoscritto affidato a Hannah Arendt delle Tesi di filosofia della storia (1940) – in «Hannah Arendt Walter Benjamin – L’angelo della storia – Testi, lettere, documenti», a cura di D. Schöttker e E. Wizisla, Giuntina, Firenze, 2017, pp. 149 – 150

[37] Aracoeli, p. 19

[38] E. Morin, Sull’Estetica (2016), Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019, p. 55

[39] Aracoeli, p. 137


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“Una luce perenne contro l’oscurità”. Il saggio-traduzione di Franca Canapini sul celebre discorso lorchiano sui libri del 1931

La poetessa e scrittrice toscana Franca Canapini ha recentemente pubblicato, per i tipi di Helicon di Arezzo, un importante lavoro letterario tra poesia, traduzione e saggio. Si tratta della rilettura commentata, oltre che della traduzione, del celebre testo del poeta Federico García Lorca (1898-1936) letto nel settembre 1931 all’atto dell’inaugurazione della Biblioteca Pubblica di Fuente Vaqueros, suo luogo natale, nei dintorni di Granada.

L’opera, che ho avuto il piacere e l’onore di poter leggere in anteprima e in progress durante il suo sviluppo e che mi ha dato la possibilità di stilare la prefazione, è uno studio attento e meticoloso, ricco di riflessioni della Nostra sul mondo dei libri, dell’importanza della cultura e della comunicazione a partire dalla alocución del Granadino che, se non è tra i testi maggiormente noti e citati del suo ampio repertorio, merita senz’altro una particolare attenzione.

La Canapini ha individuato nelle varie parti che costituiscono questo brano le parole chiave, i punti cruciali di svolta del pensiero lorchiano e, mediante una fertile attività esegetica e interpretativa, ne ha costruito un libro in cui non solo legge l’autore spagnolo – nel contesto della guerra civile che l’avrebbe visto, indirettamente, coinvolto e una delle più celebri vittime – ma lo rilegge in relazione al contesto odierno, alla società globalizzata nella quale viviamo. La nuova contestualizzazione dell’opera nello scenario odierno è funzionale a far emergere in maniera ancor più decisiva i temi fondanti del discorso lorchiano. Puntuali note a piè di pagina forniscono ulteriori approfondimenti su date, momenti decisivi o persone – tra amici e intellettuali – con le quali Lorca fu in contatto ma anche – in un’ottica più ampia e generale – a tutta la storia della scrittura (che è storia della civiltà) passando attraverso le fasi della trasmissione del libro nelle sue varie forme, all’editoria come scienza e soffermandosi anche sul valore del libro come oggetto prezioso, per contenuti ma anche per fattura e tradizione.

La scomposizione del testo di Lorca in vari capitoli facilita questo lavoro di studio e lettura di Franca Canapini dei tanti elementi degni di essere presi in esame, approfonditi, sviscerati[1]. La successione delle varie parti, con la traduzione in italiano (importante il supporto e la supervisione dell’argentina Cecilia Casau in questo) e il relativo commento, sono di particolare utilità anche per chi non ha padronanza della lingua spagnola e potrà, in tal modo, usufruire di un mezzo molto efficace, preciso, attento a ogni approccio. Non di minore importanza è la scelta dell’apparato fotografico che correda in maniera proporzionata e visivamente adeguata la componente testuale. Tra le immagini uno scatto del 1914 di un giovanissimo Lorca in compagnia dell’amata sorella Isabel (1909-2002) mentre le insegna a leggere ma anche uno scatto del 1976, nel quarantennale dell’uccisione del poeta, per il primo evento-omaggio Cinco a las cinco (che da allora annualmente si tiene in sua memoria) a Fuente Vaqueros. Nella prima fila, del foltissimo pubblico presente all’aperto (6.000 persone, riportano le cronache) di questo spettacolo corale (uno dei primi eventi pubblici in cui fu possibile partecipare ed esprimersi con la riappropriata libertà dopo il buio della dittatura), si distingue l’allora sessantasettenne sorella Isabel al centro e poco lontano, alla sua destra, probabilmente Antonina Rodrigo, l’unica donna della “Commissione dei 33” che organizzò l’evento celebrativo.

Particolarmente rilevanti risultano, tra i tanti, i capitoli 6 e 7 dell’opera che contengono lo studio di quelle parti di testo di Lorca forse più note e da Canapini contraddistinti con i titoli che richiamano le sue stesse parole “Non solo di pane vive l’uomo” e “Libri! Libri! Orizzonti, scale per salire sulla vetta dello spirito e del cuore”.

Lo scritto di Lorca, mediante la circumnavigazione delle vicende dell’oggetto-libro, è una storia condensata della cultura dell’uomo, delle vicende proto-editoriali che hanno contraddistinto l’evoluzione delle tecniche di stampa, nella convinzione che il libro sia un potente fattore di conoscenza, cultura e di socialità, ben al di là della mera erudizione. Ed ecco perché il tono impiegato dallo spagnolo è quello di un oratore lieto e soddisfatto: con la fondazione della Biblioteca non si prende parte a una cerimonia istituzionale ma a una festa collettiva, un momento di felice condivisione tra chi (come lui che tanto lesse e altrettanto scrisse) ama i libri e ne difende l’importanza. Riconosce e consacra la libertà del singolo e delle masse.  La tutela e la promozione del libro, in qualsiasi modo si realizzino, attengono a un fenomeno di spiccata rilevanza poiché garantisce “unica salvezza dei popoli”. Libertà d’espressione e riconoscimento di diritti che di lì a poco sarebbero stati duramente messi al bando dall’oppressione fascista nel duro conflitto civile (1936-1939) e poi del dominio dittatoriale franchista (1936-1975) che, come ogni dittatura, introdusse una dura attività di censura preventiva e organizzò indici di libri proibiti.

Il capitolo che chiude l’opera, il ventottesimo, contiene l’estremo omaggio di Lorca in difesa di quel mondo di libertà e di conoscenza per il quale sempre si impegnò nel corso della sua breve vita e ha la forma anche di un riconoscimento verso coloro che, a vario titolo, hanno difeso nel corso del tempo le medesime libertà. Qui troviamo, in un climax lirico che non può rimanere inavvertito, il senso compiuto dell’intera alocución che è e permane, in fondo, il suo testamento universale:

E un saluto a tutti. Ai vivi e ai morti, giacché vivi e morti compongono un paese. Ai vivi per augurargli felicità e ai morti per ricordarli con affetto perché rappresentano la tradizione del popolo e perché è grazie a loro se siamo tutti qui. Che questa biblioteca doni pace, inquietudine spirituale e allegria a questo paese e non dimenticate questo bellissimo detto che scrisse un critico francese del secolo XIX: Dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei”.

Lorenzo Spurio

Matera, 05/04/2025

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L’autrice

Franca Canapini è nata a Chianciano Terme (SI), risiede ad Arezzo dal 1975. Laureata in Materie Letterarie presso l’Università degli Studi di Perugia, è stata docente di Lettere nella Scuola Secondaria di primo grado. Ha pubblicato nove raccolte di poesia: Stagioni sovrapposte e confuse (2010), Tra i solstizi (2011), Il senso del sempre (2013), Viaggio nella poesia (2014), Gente in cammino (2014), La bellezza tragica del mondo (2016), Semi nudi (2021), Haiku per un anno (2022), Misteri d’amore – Poema ispirato al Simposio di Platone (20249. Al suo attivo ha anche un romanzo (Un giorno, la vita, 2017) una raccolta di favole (Favolette per grandi e per piccini, 2017), un romanzo breve (Melina – Una storia surreale, 2019) e un racconto di memorie (Dal fondo – I miei primi dieci anni, 2019). Ha ricevuto premi e riconoscimenti per la sua opera poetica e narrativa. Per la saggistica ha pubblicato: Una luce perenne contro l’oscurità. Alocución al pueblo de Fuente Vaqueros di Federico García Lorca (2025). È stata Consigliere e Vice Presidente dell’Associazione degli Scrittori Aretini “Tagete” dal 2013 al 2023, nonché membro di giuria in alcuni premi letterari.


[1] L’autrice ha dedicato anche un interessante articolo a questo libro di Lorca focalizzando l’attenzione sull’importanza della lettura come “buona pratica”: Franca Canapini, “Dalla Alocución al pueblo di Fuente Vaqueros di Federico Garcia Lorca del 1931 alla necessità odierna di creare una consuetudine con il libro, «La casa del vento», 16/03/2025, Link: https://tinyurl.com/ypz3a8jz (Sito consultato il 05/04/2025).


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La verità delle favole: quando gli antagonisti diventano protagonisti. “Quello che nessuno sa” di Cristina Desideri

Saggio di FRANCESCO SCATIGNO

Raccontare una storia da un’angolazione diversa può trasformare ciò che è familiare in qualcosa di straordinario. È esattamente ciò che fa l’autrice Cristina Desideri in questa raccolta di dieci favole e fiabe, Quello che nessuno sa edito da Pav Edizioni, offrendo una prospettiva inedita sulle storie che abbiamo imparato ad amare fin dall’infanzia. In un ribaltamento sorprendente, i protagonisti di queste narrazioni non sono gli eroi classici, ma i cosiddetti antagonisti: personaggi spesso etichettati come “cattivi” senza appello. 

Questa inversione di ruoli invita il lettore a rivedere il proprio giudizio, sollevando interrogativi profondi su temi come il pregiudizio, l’empatia e l’idea stessa di giustizia. Qual è la vera storia del Lupo Cattivo? La Strega Malvagia ha davvero scelto il male, o è stata spinta da circostanze ingiuste? Attraverso questa raccolta, l’autrice dimostra che dietro ogni figura apparentemente negativa si nasconde una complessità umana che merita di essere indagata

L’originalità dell’approccio risiede nella capacità di trasformare le fiabe classiche in strumenti per riflettere sulle sfumature del bene e del male. Le storie diventano così un terreno fertile per interrogarsi su temi universali, ma anche attuali, spingendo il lettore a uscire dalla propria zona di comfort interpretativa. 

Questo lavoro non si limita a intrattenere, ma rinnova il significato delle fiabe, rendendole ancora una volta rilevanti per il nostro tempo. In un’epoca in cui è sempre più necessario comprendere le ragioni dell’altro, dare voce agli antagonisti diventa un atto letterario coraggioso, capace di aprire nuovi orizzonti nella narrativa contemporanea.

L’antagonista come protagonista: un ribaltamento culturale

Dare voce agli antagonisti è un atto sovversivo, capace di sfidare le convenzioni narrative che da secoli influenzano il nostro immaginario collettivo. In questa raccolta, i ruoli tradizionali vengono capovolti, spingendoci a esplorare le motivazioni, le paure e i sogni di quei personaggi che troppo spesso vengono liquidati come “il cattivo di turno”. Attraverso questo cambio di prospettiva, le fiabe diventano un campo di indagine psicologica e sociale, in cui ogni antagonista rivela una profondità che va ben oltre gli stereotipi. 

Prendiamo ad esempio il Lupo di Cappuccetto Rosso: una figura da sempre associata alla ferocia e all’inganno. Ma cosa accade se ci fermiamo a riflettere sulle sue ragioni? La fame, l’isolamento, la demonizzazione da parte della comunità: ecco che il Lupo si trasforma in un simbolo della marginalità, un essere che lotta per sopravvivere in un mondo che lo considera irrimediabilmente diverso. Lo stesso vale per la Strega della fiaba di Hansel e Gretel, la cui casa di dolciumi potrebbe raccontare una storia di solitudine e desiderio di connessione, condivisione, soffocati dall’ombra dell’avidità e del pregiudizio. 

Questo ribaltamento non è solo narrativo, ma anche culturale. Rimettere in discussione il manicheismo delle fiabe classiche significa affrontare questioni più ampie: chi decide cosa è bene e cosa è male? Quali voci vengono silenziate nelle storie che tramandiamo? 

Cristina Desideri sembra suggerire che gli antagonisti non siano nati tali, ma lo siano diventati a causa delle circostanze o delle scelte altrui. È un invito potente a rivedere le nostre convinzioni e a chiederci quante delle “streghe” e dei “lupi” nella nostra vita reale meritino in realtà una seconda possibilità di essere compresi.

Una scrittura evocativa e multisensoriale

La forza di questa raccolta non risiede solo nel ribaltamento delle prospettive, ma anche nello stile narrativo che l’autrice adotta per dar vita alle sue storie. Ogni fiaba è costruita con un linguaggio evocativo e ricco di dettagli che stimolano i sensi, trascinando il lettore in mondi intrisi di atmosfera. 

Le descrizioni delle ambientazioni, dai boschi oscuri alle dimore decadenti, sono pennellate che ricreano paesaggi quasi tangibili. È facile immaginare l’odore umido della foresta, il crepitio del fuoco nella casa della strega, o il suono inquietante dei passi su un ponte di legno. L’autrice dimostra una straordinaria capacità di giocare con i toni cromatici e con i suoni, intrecciando immagini e sensazioni che restano impresse nella mente. 

Anche i dialoghi contribuiscono a questo effetto multisensoriale: le parole scelte riflettono non solo il carattere dei personaggi, ma anche il loro stato emotivo. Quando il Lupo parla, lo fa con una voce graffiante e intrisa di amarezza; la Strega, invece, sceglie un linguaggio che alterna crudeltà e malinconia, come a suggerire una dualità interiore irrisolta. 

La narrazione, seppur semplice nella struttura, si carica di una poetica che invita alla riflessione. Attraverso immagini potenti e metafore, l’autrice non si limita a raccontare una storia, ma costruisce un’esperienza letteraria capace di toccare l’anima del lettore. 

Questa attenzione al dettaglio rende ogni fiaba unica e memorabile. La scrittura si fa così un ponte tra passato e presente, mantenendo il fascino della tradizione fiabesca, ma arricchendola con una modernità che parla al lettore di oggi, portandolo a riconsiderare il mondo attraverso gli occhi dei cosiddetti “antagonisti”.

Tematiche universali rilette attraverso gli occhi degli antagonisti

Ciò che rende Quello che nessuno sa così affascinante è la capacità dell’autrice di affrontare tematiche universali attraverso le voci e le prospettive dei personaggi tradizionalmente considerati “cattivi”. Le fiabe, da sempre, sono state veicoli di valori morali e lezioni di vita, ma in questa reinterpretazione i confini tra bene e male si fanno sfumati, portando alla luce sfaccettature inaspettate e profondamente umane. 

Ogni racconto diventa un’occasione per affrontare questioni fondamentali come l’emarginazione, il pregiudizio, la solitudine e il desiderio di riscatto. La strega, spesso ridotta a mero stereotipo della cattiveria, emerge qui come un personaggio complesso, portatore di un dolore antico e di un desiderio di accettazione mai realizzato. Il Lupo, invece, si rivela simbolo di una natura incompresa, vittima di un sistema che lo dipinge come una minaccia per giustificare la paura del diverso. 

Non manca una critica implicita alle dinamiche di potere e al modo in cui le narrazioni dominanti spesso consolidano gerarchie e pregiudizi. I principi e gli eroi, in questa rilettura, non sono più figure idealizzate, ma rappresentano talvolta l’arroganza di chi detiene il controllo della narrazione. Questo ribaltamento invita il lettore a interrogarsi sulle storie che conosce, ma anche sulle narrazioni che costruisce e accetta nella propria vita quotidiana. 

Attraverso questi personaggi, Cristina Desideri riesce a rendere attuali tematiche sociali e culturali. La ricerca di una verità più complessa diventa un percorso di empatia, un invito a vedere il mondo con occhi nuovi.

Il valore di una nuova prospettiva sulle fiabe

Nel panorama della letteratura per l’infanzia e della riscrittura delle fiabe, questa raccolta si distingue per il suo approccio originale e la sua capacità di far riflettere. Ribaltando il punto di vista tradizionale e dando voce agli antagonisti, l’autrice offre ai lettori un’esperienza di lettura che va oltre la semplice reinterpretazione narrativa: è un invito a mettere in discussione le convenzioni e a osservare le storie con uno sguardo critico. 

In un’epoca in cui il dibattito sulla rappresentazione nelle storie è più acceso che mai, la scelta di riscrivere le fiabe dal punto di vista di chi solitamente è relegato al ruolo di “cattivo” appare quanto mai attuale. Se le fiabe classiche hanno spesso trasmesso modelli rigidi di giusto e sbagliato, queste nuove narrazioni insegnano l’importanza della complessità, dell’empatia e della comprensione delle motivazioni altrui. 

L’opera non è solo un esperimento letterario, ma anche un’occasione per i lettori di ogni età di interrogarsi sul potere delle storie nella costruzione della nostra percezione del mondo. In un certo senso, il libro diventa anche una riflessione sul modo in cui la società costruisce le sue narrazioni e su chi viene etichettato come buono o cattivo, giusto o sbagliato. 

Con una scrittura coinvolgente e un’attenta sensibilità nel tratteggiare le psicologie dei personaggi, l’autrice dimostra che le fiabe possono ancora stupire, emozionare e soprattutto far pensare. Questa raccolta non è solo un omaggio ai grandi classici, ma un manifesto sulla necessità di dare voce a chi, nella narrazione dominante, è sempre stato messo ai margini.

FRANCESCO SCATIGNO


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Gabriella Maggio su “Il ritorno di Omero” di Dante Maffia

Chiunque possieda un numero sufficiente di libri da porsi il problema della loro sistemazione, sa che la questione non è affatto peregrina. Aveva ragione quel bibliotecario che asseriva solenne: le biblioteche sono governate da una scienza in sé e per sé, non c’è nulla da fare!( Marco Filoni, Inciampi, Italo Svevo 2019).

Alcuni giorni fa mentre cercavo un libro nella mia biblioteca ho trovato, incollato  ad un grosso volume, Le famose concubine imperiali  a cura di Ludovico Di Giura, ed. Arnoldo Mondadori 1958,  un fascicolo azzurro, in parte ingiallito. Era Il ritorno di Omero di Dante Maffia, scritto nel 1982 e pubblicato nell’’84 nei Sedicesimi di Letteratura, n.5, supplemento a “Periferia”, n.20 , Cosenza, con prefazione di Giulio Ferroni. Il fascicolo contiene sedici brevi poesie che trattano di come Dante Maffia, riviva la poesia dell’antico Omero. 

È opinione condivisa  che la poesia sia un luogo fatto di memoria e di sentimenti, un continuo colloquio interiore del poeta con se stesso  e con i propri autori; che sia un modo  di essere  nel  mondo  e cercarne la verità. Chi come Dante Maffia  è nato  sulle sponde del Mare Ionio, nell’antica Magna Grecia, percepisce nell’anima  la  presenza del confine  geografico e letterario con la Grecia. Separazione  e  nello stesso  tempo collegamento, ma soprattutto per i poeti autentici come Dante Maffia  irrinunciabile invito a fare  poesia, a ridefinire la propria identità culturale e umana. Mescolando  la propria  voce poetica a quella dell’antico Omero, Dante Maffia  rielabora il  mito  del cieco cantore in maniera originale facendo riferimento alle inevitabili “modificazioni” del mito  stesso, generate dal susseguirsi degli accadimenti, che ne scandiscono la distanza, e nello stesso tempo definendo  le “persistenze”: “c’è sempre qualcuno che porta i miei occhi ,/qualcuno che dice ciò che ho detto”, in nome dell’universalità della poesia teorizzata da Aristotele  nella  “Poetica”.

Tra i due poeti c’è uno scambio fecondo d’identità per cui Omero versus Dante può dire: “Scendo nelle profondità del vento,/aspiro il nettare dolce del trapasso,/ muto di conoscenza in conoscenza,/ mi trovo in ogni forma, in fasi alterne/ di secoli bugiardi, di deliri”.

Il poeta Dante Maffia

L’esperienza personale di Dante Maffia,  che intreccia  quotidiano, ricerca esistenziale e  desiderio  di autenticità umana, è resa sulla pagina  filtrata dalle trasparenze mitiche che avvolgono Omero:  non avere nessuna patria , il proprio maledetto vagare. L’Omero  di Dante Maffia arriva  per mare,  remando “su una piccola barca… non è cieco,  cerca un tempo/ ignoto alle pupille, ma nel cuore impresso”. Come acutamente nota Giulio Ferroni nella prefazione questo Omero è simile a Caronte, è  un traghettatore che unisce le due rive non dell’Acheronte, ma  del Mare Ionio, accompagnando  il compimento della poesia dell’audace Maffia.

Leggendo i versi de Il ritorno di Omero qua e là traspare sia la mediazione culturale dell’Alighieri, che tuttavia non osava identificarsi con i poeti antichi, accontentandosi di essere “sesto tra cotanto senno” o di gareggiare con Ovidio e Lucano come nella iactatio del canto XXV dell’Inferno e di Ugo Foscolo che in quel mare greco ebbe “la culla”. Il “signore dell’altissimo canto / che sovra li altri com’aquila vola”, secondo le parole dell’Alighieri nel IV canto dell’Inferno, ha abbandonato il nobile castello,  ora  si contamina con l’identità incerta, del poeta contemporaneo, si frantuma per esprimere i sentimenti degli uomini d’oggi, velleitari che posano a eroi “Sminuzzato e rifatto in particole,/in diseguali miti/inseguo me stesso”. I traguardi sono perduti. Di questi tempi  si è  “Eroi solo per un giorno” come dice David Bowiein Heroes.

Il poeta Omero/Dante resta nella zona d’ombra dell’esserci:”Potessi ancora diventare Ulisse…Ritroverei la forza del mio canto…” Insieme agli eroianche il canto epico  che li ha creati  cede  nei versi  del  poemetto all’elegia  del “primo fiato d’erba…dei colori dell’aprile”. La “parola risolutrice” dev’essere cavata dal buio del cuore  con fatica  simile  a quella  del minatore che estrae la materia preziosa dalle cavità della terra. E non è più certa la fama, quella che  arriva a chi viene dopo e lo  nutre   come il  frutto maturo che si disfa  nella terra  e si fa nuovo cibo. Ma come il giovane Holden nel romanzo di Salinger si chiede dove vadano le anatre quando gela il laghetto di Central Park, Dante Maffia/Omero si chiede: “Dove sono i miei versi ?…La mia parola chissà/ se come frutto si dissolve/ o resta al fondo/ di simboli segreti…” Eppure  Maffia sa di germogliare  dal quel seme dell’antico Omero e non ostante tutto si apre alla  fiducia: “Perché la parola vince, apre le tenebre…non s’arrende all’inerzia della carta”. E ne è consapevole. Nel suo solitario raccoglimento il poeta trova difesa e consolazione nell’affascinante viaggioculturale che salda passato e presente, nel convincimento della centralità della Grecia nella stratificazione culturale  dell’occidente. La  sua  ardita operazione culturale consiste nella  traslitterazione del mondo epico in elegia. Il passato assoluto, i miti destinati a  compimento, il paradigma dei valori accettati e condivisi si problematizzano e frantumano, diventando ricerca e domanda di senso.  È acuta la consapevolezza di un’unità irrimediabilmente perduta nel mondo contemporaneo, proposta nella ripresa del mito di Eurinome e Ofione:  “Eurinome trasale, la sua carne / s’apre alla demenza”.

Il ritorno di Omero è  un’opera  di forte  impatto emotivo  ancora oggi, strutturata su una vasta cultura rivissuta con  piena consapevolezza di ciò che necessariamente muta e ciò che resta, pur nella incessante metamorfosi  odierna:  il canto dei poeti. Il ritmo dei  XVI  componimenti  è fluido, le immagini visive e sonore  si susseguono senza interruzione. È frequente l’uso dell’enjambement che  dà risalto alle parole, mentre la sintassi semplice asseconda il movimento espansivo del pensiero, dal mito alla quotidianità.

GABRIELLA MAGGIO


Il presente testo viene pubblicato dietro l’autorizzazione da parte dell’Autrice. La pubblicazione del testo, in formato integrale o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto, è vietata senza l’autorizzazione da parte dell’Autrice.

Rivista “Nuova Euterpe” n°02/2024 – Lista delle opere

LISTA DELLE PUBBLICAZIONE DELLE OPERE

AFORISMI

Nr. 1 aforisma di GABRIELLA PACI – https://blogletteratura.com/2024/03/23/n-e-02-2024-un-aforisma-di-gabriella-paci/

Nr. 2 aforismi di CLAUDIO TONINI – https://blogletteratura.com/2024/04/24/n-e-02-2024-rifiorire-e-terapie-spirituali-due-aforismi-di-claudio-tonini/

Nr. 2 aforismi di EMANUELE MARCUCCIOhttps://blogletteratura.com/2024/04/03/n-e-02-2024-due-aforismi-di-emanuele-marcuccio/

Nr. 2 aforismi di LAURA VARGIUhttps://blogletteratura.com/2024/03/06/n-e-02-2024-oriente-e-gerusalemme-due-aforismi-di-laura-vargiu

Nr. 2 aforismi di LORETTA FUSCO – https://blogletteratura.com/2024/03/18/n-e-02-2024-due-aforismi-di-loretta-fusco/

Nr. 2 aforismi di MARIA PELLINO – https://blogletteratura.com/2024/04/14/n-e-02-2024-due-aforismi-di-maria-pellino/

Nr. 2 aforismi di PAOLA ERCOLE https://blogletteratura.com/2024/03/30/n-e-02-2024-due-aforismi-di-paola-ercole/


POESIA

(esercizi di mindufulness)” – Di ALESSANDRA CARNOVALE – https://blogletteratura.com/2024/04/20/n-e-02-2024-esercizi-di-minduflness-poesia-di-alessandra-carnovale/

“[Smontare le emozioni]” – Di CLARA DANUBIO https://blogletteratura.com/2024/03/30/n-e-02-2024-smontare-le-emozioni-poesia-di-carla-danubio/

“01.08.2023” – Di ROSA MARIA CHIARELLO https://blogletteratura.com/2024/05/28/n-e-02-2024-01-08-2023-poesia-di-rosa-maria-chiarello/

Abbraccio d’infinito” – Di GABRIELLA PACI https://blogletteratura.com/2024/05/15/n-e-02-2024-abbraccio-dinfinito-di-gabriella-paci/

Adagio BWV 974” – Di ALESSANDRO MONTICELLI – https://blogletteratura.com/2024/04/14/n-e-02-2024-adagio-bwv-974-poesia-di-alessandro-monticelli/

“Alba struggente” – Di ANNELLA PRISCO – https://blogletteratura.com/2024/04/17/n-e-02-2024-alba-struggente-poesia-di-annella-prisco/

“Algamemoria” e “Il mosaico del nulla” – Di MARCO COLLETTI – https://blogletteratura.com/2024/04/18/n-e-02-2024-algamemoria-e-il-mosaico-del-nulla-due-poesie-di-marco-colletti/

“Attesa” – Di MADDALENA CORIGLIANO – https://blogletteratura.com/2024/04/18/n-e-02-2024-attesa-poesia-di-maddalena-corigliano/

“Attimo” – Di ANTONINO BLUNDA – https://blogletteratura.com/2024/04/28/n-e-02-2024-attimo-poesia-di-antonino-blunda/

“Canzone triste” – Di ANTONIO MANGIAMELI https://blogletteratura.com/2024/04/04/n-e-02-2024-canzone-triste-poesia-di-antonio-mangiameli/

“Cedere” – Di ANTONIO SPAGNUOLOhttps://blogletteratura.com/2024/03/26/n-e-02-2024-di-luce-immensa-poesia-di-ornella-spagnulo/

“Com’è difficile” – Di GIUSEPPE GAMBINI – https://blogletteratura.com/2024/03/17/n-e-02-2024-come-difficile-poesia-di-giuseppe-gambini/

“Con affetto, tua madre” – Di SIMONA GIORGI https://blogletteratura.com/2024/04/01/n-e-02-2024-con-affetto-tua-madre-poesia-di-simona-giorgi/

“Cuore bianco” – Di SILVIA ROSA https://blogletteratura.com/2024/04/06/n-e-02-2024-cuore-bianco-poesia-di-silvia-rosa/

 “Dai capitoli del tempo” – Di PASQUALINO CINNIRELLAhttps://blogletteratura.com/2024/05/04/n-e-02-2024-dai-capitoli-del-tempo-poesia-di-pasqualino-cinnirella/

“Di luce immensa” – Di ORNELLA SPAGNULO – https://blogletteratura.com/2024/03/26/n-e-02-2024-di-luce-immensa-poesia-di-ornella-spagnulo/

“Distanze” – Di CAMILLA ZIGLIA – https://blogletteratura.com/2024/03/21/n-e-02-2024-distanze-poesia-di-camilla-ziglia/

“Distici dell’inespresso” – Di ROSSANA JEMMA – https://blogletteratura.com/2024/03/08/n-e-02-2024-distici-dellinespresso-poesia-di-rossana-jemma/

“El viènto” – Di TESEO TESEI https://blogletteratura.com/2024/05/07/n-e-02-2024-el-viento-poesia-in-dialetto-fabrianese-di-teseo-tesei/

“Esistono incontri” – Di IZABELLA TERESA KOSTKA https://blogletteratura.com/2024/04/21/n-e-02-2024-esistono-incontri-poesia-di-izabella-teresa-kostka/

“Figli di Dedalo” – Di DORIS BELLOMUSTO – https://blogletteratura.com/2024/04/25/n-e-02-2024-figli-di-dedalo-poesia-di-doris-bellomusto/

fissavi quella scia” – Di CINZIA DEMIhttps://blogletteratura.com/2024/05/05/n-e-02-2025-fissavi-quella-scia-poesia-di-cinzia-demi/

“Fugace” – Di FEDERICO PREZIOSI https://blogletteratura.com/2024/04/10/n-e-02-2024-fugace-poesia-di-federico-preziosi/

“Guardo” – Di EMANUELE MARCUCCIOhttps://blogletteratura.com/2024/05/05/n-e-02-2024-guardo-poesia-di-emanuele-marcuccio/

“Il cielo e lo spirituale dell’incarnato (ovvero l’azzurro e il rosa di Ettore Spalletti)” – Di RENZO FAVARON https://blogletteratura.com/2024/04/01/n-e-02-2024-il-cielo-e-lo-spirituale-dellincarnato-ovvero-lazzurro-e-il-rosa-di-ettore-spalletti-poesia-di-renzo-favaron/

“Il Fato” – Di DAVIDE MARCHESE https://blogletteratura.com/2024/03/26/n-e-02-2024-il-fato-poesia-di-davide-marchese/

“Il fiume della vita” – Di FIORELLA FIORENZONI https://blogletteratura.com/2024/04/11/n-e-02-2024-il-fiume-della-vita-poesia-di-fiorella-fiorenzoni/

“Il lungo viaggio” – Di ELEONORA BELLINI – https://blogletteratura.com/2024/04/14/n-e-02-2024-il-lungo-viaggio-poesia-di-eleonora-bellini/

 “Il silenzio muove le foglie” – Di ROBERTO CASATI https://blogletteratura.com/2024/05/25/n-e-02-2024-il-silenzio-muove-le-foglie-poesia-di-roberto-casati/

“Io resto in ascolto di te” – Di TINA FERRERI TIBERIO – https://blogletteratura.com/2024/03/04/n-e-02-2024-poesia-e-spiritualita-articolo-di-tina-ferreri-tiberio/

“Io sono essenza” – Di MARIA BENEDETTA CERRO https://blogletteratura.com/2024/04/14/n-e-02-2024-io-sono-essenza-poesia-di-maria-benedetta-cerro/

L’arbìtrio” – Di FLAVIA TOMASSINI – https://blogletteratura.com/2024/04/21/n-e-02-2024-larbitrio-poesia-di-flavia-tomassini/

“La danza” – Di IRENE SABETTA https://blogletteratura.com/2024/05/04/n-e-02-2024-la-danza-poesia-di-irene-sabetta/

“La fatica di nascere” – Di GIOVANNA FILECCIA – https://blogletteratura.com/2024/03/10/n-e-02-2024-ritornoalvuotosaggiodigiovannafileccia/

La lettera mancante” – Di RITA GRECO https://blogletteratura.com/2024/04/28/n-e-02-2024-la-lettera-mancante-poesia-di-rita-greco/

“La luna e il suo mistero” – Di LUCIA LO BIANCOhttps://blogletteratura.com/2024/05/04/n-e-02-2024-la-luna-e-il-suo-mistero-poesia-di-lucia-lo-bianco/

“La resistenza dell’amore” – Di RITA PACILIO – https://blogletteratura.com/2024/05/12/n-e-02-2024-la-resistenza-dellamore-poesia-di-rita-pacilio/

Lacrime di pace” – Di AMEDEO DI SORAhttps://blogletteratura.com/2024/04/30/n-e-02-2024-lacrime-di-pace-poesia-di-amedeo-di-sora/

“Le calde posture del sole” – Di DONATELLA NARDIN https://blogletteratura.com/2024/04/07/n-e-02-2024-le-calde-posture-del-sole-poesia-di-donatella-nardin/

“Liturgia del silenzio” – Di GABRIELE GRECOhttps://blogletteratura.com/2024/05/03/n-e-02-2024-liturgia-del-silenzio-poesia-di-gabriele-greco/

“Mantra di Speranze” – Di NICOLE FIAMENIhttps://blogletteratura.com/2024/05/03/n-e-02-2024-mantra-di-speranze-poesia-di-nicole-fiameni/

Misericordia” – Di EMANUELA MANNINO https://blogletteratura.com/2024/03/17/n-e-02-2024-misericordia-poesia-di-emanuela-mannino/

“Nel vuoto [lì per sempre]” – Di RITA STANZIONE https://blogletteratura.com/2024/05/24/n-e-02-2024-nel-vuoto-li-per-sempre-di-rita-stanzione/

“Nella nebbia” – Di MARIO DE ROSA https://blogletteratura.com/2024/05/25/n-e-02-2024-nella-nebbia-poesia-di-mario-de-rosa/  

“Oggi il sole” – Di GABRIELLA MAGGIO https://blogletteratura.com/2024/05/27/n-e-02-2024-oggi-il-sole-poesia-di-gabriella-maggio/

Parole di resurrezione” – Di GIANNI ANTONIO PALUMBO – https://blogletteratura.com/2024/03/13/n-e-02-2024-parole-di-resurrezione-poesia-di-gianni-antonio-palumbo/

“per legge naturale lussureggiano gli ibridi” e “solstizio d’inverno 2023” – Di ANNAMARIA FERRAMOSCA – https://blogletteratura.com/2024/05/31/n-e-02-2024-solstizio-dinverno-2023-e-per-legge-naturale-lussureggiano-gli-ibridi-due-poesie-di-annamaria-ferramosca/

“Poesia e anima” – Di MARIA PELLINO – https://blogletteratura.com/2024/06/03/n-e-02-2024-poesia-e-anima-poesia-di-maria-pellino/

“Poesia” – Di LUCIO ZANIBONI https://blogletteratura.com/2024/04/07/n-e-02-2024-poesia-di-lucio-zaniboni/

“preghiera a san michele” – Di ROSARIA DI DONATO – https://blogletteratura.com/2024/06/02/n-e-02-2024-preghiera-a-san-michele-poesia-di-rosaria-di-donato/

“Preghiera” – Di ANTONIETTA SIVIERO – https://blogletteratura.com/2024/05/17/n-e-02-2024-preghiera-poesia-di-antonietta-siviero/

“Preghiera” – Di MARINA MINET – https://blogletteratura.com/2024/06/01/n-e-02-2024-preghiera-poesia-di-marina-minet-2/

“Quando sarai nel vuoto” – Di MARGHERITA PARRELLI – https://blogletteratura.com/2024/05/26/n-e-02-2024-quando-sarai-nel-vuoto-poesia-di-margherita-parrelli/

“Quasi apparenze” – Di RICCARDO CARLI BALLOLA https://blogletteratura.com/2024/03/26/n-e-02-2024-quasi-apparenze-poesia-di-riccardo-carli-ballola/

“Quiete di pane e famiglia” – Di CARLA MARIA CASULA – https://blogletteratura.com/2024/03/09/n-e-02-2024-quiete-di-pane-e-famiglia-poesia-di-carla-maria-casula/

“Riflessioni” – Di GIAN LUCA GUILLAUMEhttps://blogletteratura.com/2024/04/11/n-e-02-2024-riflessioni-poesia-di-gian-luca-guillaume/

“Ritornare in mente” – Di LUIGI PIO CARMINAhttps://blogletteratura.com/2024/05/17/n-e-02-2024-ritornare-in-mente-poesia-di-luigi-pio-carmina/

Sacro vuoto” – Di TIZIANA COLUSSO https://blogletteratura.com/2024/05/23/n-e-02-2024-sacro-vuoto-poesia-di-tiziana-colusso-2/

“Se fossimo vetro” – Di SIMONE PRINCIPEhttps://blogletteratura.com/2024/05/18/n-e-02-2024-se-fossimo-vetro-poesia-di-simone-principe/

“Sei il verme della tristezza” – Di EMILIO PAOLO TAORMINA – https://blogletteratura.com/2024/05/02/n-e-02-2024-sei-il-verme-della-tristezza-poesia-di-emilio-paolo-taormina/

“Sensazioni celesti” – Di CLAUDIO MERINI https://blogletteratura.com/2024/05/29/n-e-02-2024-sensazioni-celesti-poesia-di-claudio-merini/

“Siamo anime” – Di ANGELA PATRONO – https://blogletteratura.com/2024/05/15/n-e-02-2024-siamo-anime-poesia-di-angela-patrono/

Sole!” – Di GIOVANNI TERESI – https://blogletteratura.com/2024/05/30/n-e-02-2024-sole-poesia-di-giovanni-teresi/  

“Solidarietà (Venezuela)” – Di GRAZIA FINOCCHIARO – https://blogletteratura.com/2024/05/21/n-e-02-2024-solidarieta-venezuela-poesia-di-grazia-finocchiaro/

 “Sono andata al mio funerale” – Di SANDRA MANCA – https://blogletteratura.com/2024/05/19/n-e-02-2024-sono-andata-al-mio-funerale-poesia-di-sandra-manca/

“Spazio puro” – Di PAOLA PITTAVINO – https://blogletteratura.com/2024/03/21/n-e-02-2024-spazio-puro-poesia-di-paola-pittavino/

“Tutto il resto è tempo (Seneca)” – Di GABRIELLA PISON https://blogletteratura.com/2024/04/07/n-e-02-2024-tutto-il-resto-e-tempo-seneca-poesia-di-gabriella-pison/

“Una coperta di cenere” – Di LUISA DI FRANCESCO – https://blogletteratura.com/2024/06/01/n-e-02-2024-una-coperta-di-cenere-poesia-di-luisa-di-francesco/

“Una preghiera al vento” – Di MICHELA ZANARELLA https://blogletteratura.com/2024/05/21/n-e-02-2024-una-preghiera-al-vento-poesia-di-michela-zanarella/

Vanishing Faces” – Di SILVIO RAFFO – https://blogletteratura.com/2024/03/14/n-e-02-2024-vanishing-faces-poesia-di-silvio-raffo/

“Versi” – Di LUCIA CRISTINA LANIA – https://blogletteratura.com/2024/05/22/n-e-02-2024-versi-poesia-di-lucia-cristina-lania/

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Vengono, inoltre, pubblicate le poesie “I premiati”; “Il Giudizio finale”; “Le beatitudini” e “Gli esclusi” di GUIDO OLDANI a compendio dell’intervista rivolta al fondatore del Realismo Terminale da ANNACHIARA MARANGONI.


ARTICOLI

“Dall’oblio dell’essere al naufragio dell’essere” – A cura di GUGLIELMO PERALTA – https://blogletteratura.com/2024/04/18/n-e-02-2024-dalloblio-dellessere-al-naufragio-nellessere-articolo-di-guglielmo-peralta/

“L’antica tradizione e l’origine del Presepe” – A cura di GIOVANNI TERESIhttps://blogletteratura.com/2024/03/20/n-e-02-2024-lantica-tradizione-e-lorigine-del-presepe-articolo-di-giovanni-teresi/

“Poesia e pace?” – A cura di ENRICA SANTONIhttps://blogletteratura.com/2024/04/10/n-e-02-2024-poesia-e-pace-articolo-di-enrica-santoni/

“Poesia e spiritualità, tra confronto e identità” – A cura di VALTERO CURZI – https://blogletteratura.com/2024/04/25/n-e-02-2024-poesia-e-spiritualita-tra-confronto-e-identita-articolo-di-valtero-curzi/

“Poesia e spiritualità” – A cura di TINA FERRERI TIBERIO – https://blogletteratura.com/2024/04/14/n-e-02-2024-io-resto-in-ascolto-di-te-poesia-di-tina-ferreri-tiberio/

“Ritorno al vuoto” – A cura di GIOVANNA FILECCIA – https://blogletteratura.com/2024/05/23/n-e-02-2024-la-fatica-di-nascere-poesia-di-giovanna-fileccia/


SAGGI

“«In te mi riconforto». Appunti sulla spiritualità tassiana” – A cura di FRANCESCO MARTILLOTTO https://blogletteratura.com/2024/06/03/n-e-02-2024-in-te-mi-riconforto-appunti-sulla-spiritualita-tassiana-saggio-di-francesco-martillotto/

“Al di là di un dispersivo incanto nella pluralità dei versi di Oronzo Liuzzi” – A cura di CARMEN DE STASIO https://blogletteratura.com/2024/04/06/n-e-02-2024-al-di-la-di-un-dispersivo-incanto-nella-pluralita-dei-versi-di-oronzo-liuzzi-saggio-di-carmen-de-stasio/

“Christine Lavant, stella abbandonata da Dio” – A cura di LORETTA FUSCO https://blogletteratura.com/2024/05/03/n-e-02-2024-christine-lavant-stella-abbandonata-da-dio-saggio-di-loretta-fusco/

“Dalla spiritualità della poesia alla sua inevitabile umanità. Dante, Beatrice e Francesca” – A cura di DILETTA FOLLACCHIO – https://blogletteratura.com/2024/03/28/n-e-02-2024-dalla-spiritualita-della-poesia-alla-sua-inevitabile-umanita-dante-beatrice-e-francesca-saggio-di-diletta-follacchio/

“Eminescu” – A cura di DANTE MAFFIAhttps://blogletteratura.com/2024/05/16/n-e-02-2024-su-mihai-eminescu-saggio-di-dante-maffia/

“L’itinerario spirituale di Vittoria Colonna” – A cura di GRAZIELLA ENNAhttps://blogletteratura.com/2024/05/14/n-e-02-2024-litinerario-spirituale-di-vittoria-colonna-saggio-di-graziella-enna/

“La poesia amorosa di Borges” – A cura di DANTE MAFFIA – https://blogletteratura.com/2024/03/18/n-e-02-2024-la-poesia-amorosa-di-borges-saggio-di-dante-maffia/

“La poesia realistico-simbolica di José Russotti” – A cura di GIUSEPPE RANDO https://blogletteratura.com/2024/04/12/n-e-02-2024-la-poesia-realistico-simbolica-di-jose-russotti-saggio-del-prof-giuseppe-rando/

“La religiosità e spiritualità nelle opere delle poete lucane: da Isabella Morra ad Anna Santoliquido” – A cura di FRANCESCA AMENDOLA – https://blogletteratura.com/2024/04/16/n-e-02-2024-la-religiosita-spirituale-nelle-opere-delle-poete-lucane-da-isabella-morra-ad-anna-santoliquido-saggio-di-francesca-amendola/

“Novalis: tra filosofia, magia e spiritualità” – A cura di RICCARDO RENZI https://blogletteratura.com/2024/04/03/n-e-02-2024-novalis-tra-filosofia-magia-e-spiritualita-saggio-di-riccardo-renzi/

“Poesia e spiritualità al femminile” – A cura di FRANCESCA LUZZIO – https://blogletteratura.com/2024/04/27/n-e-02-2024-poesia-e-spiritualita-al-femminile-articolo-di-francesca-luzzio/

“Poesia e spiritualità: la ricerca interiore tra fede e laicità” – A cura di MARIA GRAZIA FERRARIS – https://blogletteratura.com/2024/04/20/n-e-02-2024-poesia-e-spiritualita-la-ricerca-interiore-tra-fede-e-laicita-saggio-di-maria-grazia-ferraris/

“POEVITÀSIA. Manifesto della Filosofia dell’Umafeminità” – A cura di NADIA CAVALERAhttps://blogletteratura.com/2024/05/05/n-e-02-2024-poevitasia-manifesto-della-filosofia-dellumafeminita-a-cura-di-nadia-cavalera/

“Tempo di realtà” – A cura di GIULIANO LADOLFI https://blogletteratura.com/2024/05/24/n-e-02-2024-tempo-di-realta-un-saggio-sulla-poesia-a-cura-di-giuliano-ladolfi/

“UT PICTURA POËSIS. La forma dello Spirito nell’opera di quattro celebri artisti-poeti” – A cura di WANDA PATTACINI – https://blogletteratura.com/2024/05/19/n-e-02-2024-ut-pictura-poesis-la-forma-dello-spirito-nellopera-di-quattro-celebri-artisti-poeti-saggio-di-wanda-pattacini


RECENSIONI

Dialoghi con la notte. Appunti su Lezione di meraviglia di Daniele Ricci – A cura di FRANCESCO FIORETTI – https://blogletteratura.com/2024/05/22/n-e-02-2024-dialoghi-con-la-notte-appunti-su-lezione-di-meraviglia-di-daniele-ricci-a-cura-di-francesco-fioretti/

Figlie di Pocahontas, a cura di Cinzia Biagiotti e Laura Coltelli – A cura di MICHELE VESCHIhttps://blogletteratura.com/2024/03/13/n-e-02-2024-figlie-di-pocahontas-a-cura-di-cinzia-biagiotti-e-laura-coltelli-recensione-di-michele-veschi/

Geografie della sete: Getsemani di Luca Pizzolitto – A cura di ANNALISA CIAMPALINI https://blogletteratura.com/2024/03/29/n-e-02-2024-geografie-della-sete-di-luca-pizzolitto-recensione-di-annalisa-ciampalini/

Le Poesie mistiche di Rumi – A cura di LAURA VARGIU – https://blogletteratura.com/2024/03/06/n-e-02-2024-oriente-e-gerusalemme-due-aforismi-di-laura-vargiu/

Meraviglie di Simone Magli – A cura di LORENZO SPURIO https://blogletteratura.com/2024/04/04/n-e-02-2024-meraviglie-di-simone-magli-recensione-di-lorenzo-spurio/

Poesie novissime di Francisco Soriano – A cura di MARIA PINA CIANCIO – https://blogletteratura.com/2024/03/22/n-e-02-2024-poesie-novissime-di-francesco-soriano-recensione-di-maria-pina-ciancio/

Prefazione a La carne y el espíritu di Alfredo Pérez Alencart – A cura di VITO DAVOLI – https://blogletteratura.com/2024/05/16/n-e-02-2024-la-poesia-di-alfredo-perez-alencart-il-panorama-dellanima-nella-carne-dellumano-prefazione-a-la-carne-y-el-espiritu-a-cura-di-vito-davoli/

Recensione a Erotanasie, poema a due voci scritto da Giannino Balbis ed Emanuela Mannino – A cura di ORNELLA MALLO – https://blogletteratura.com/2024/05/09/n-e-02-2024-recensione-a-erotanasie-poema-a-due-voci-scritto-da-giannino-balbis-ed-emanuela-mannino-a-cura-di-ornella-mallo/

Sacro minore di Franco Arminio – A cura di CRISTINA BIOLCATI – https://blogletteratura.com/2024/03/12/n-e-02-2024-sacro-minore-di-franco-arminio-recensione-di-cristina-biolcati/


INTERVISTE

“Dare respiro al sacro”. Intervista al poeta Luigi Carotenuto – A cura di FRANCESCA DEL MORO – https://blogletteratura.com/2024/04/13/n-e-02-2024-dare-respiro-al-sacro-intervista-al-poeta-luigi-carotenuto-a-cura-di-francesca-del-moro/

“La poesia tiene in vita il mondo”. Intervista a Mario Narducci – A cura di ANNA MANNA CLEMENTIhttps://blogletteratura.com/2024/04/30/n-e-02-2024-la-poesia-tiene-in-vita-il-mondo-intervista-a-mario-narducci-a-cura-di-anna-manna-clementi/

“La sacralità nella natura”. Intervista a Mirella Crapanzano – A cura di LUCIA CUPERTINO https://blogletteratura.com/2024/03/25/n-e-02-2024-la-sacralita-nella-natura-intervista-a-mirella-crapanzano-a-cura-di-lucia-cupertino/

Intervista a Silvio Aman – A cura di ADRIANA GLORIA MARIGO – https://blogletteratura.com/2024/03/15/n-e-02-2024-intervista-a-silvio-aman-a-cura-di-adriana-gloria-marigo/

Intervista al Maestro Guido Oldani, fondatore del Realismo Terminale – A cura di ANNACHIARA MARANGONI https://blogletteratura.com/2024/04/09/n-e-02-2024-intervista-al-maestro-guido-oldani-fondatore-del-realismo-terminale-a-cura-di-annachiara-marangoni/

Intervista alla scrittrice e antropologa Loretta Emiri – A cura di LORENZO SPURIO – https://blogletteratura.com/2024/04/22/n-e-02-2024-intervista-alla-scrittrice-e-antropologa-loretta-emiri-a-cura-di-lorenzo-spurio/


N.E. 02/2024 – “In te mi riconforto”. Appunti sulla spiritualità tassiana. Saggio di Francesco Martillotto

In te mi riconforto».[1]  Appunti sulla spiritualità tassiana

Nel corso dei secoli, attorno alla concezione religiosa tassiana e, più nello specifico, al rapporto del poeta con la dimensione del sacro, sono sorti e poi sedimentati dei pregiudizi che ne hanno inficiato una corretta e obiettiva valutazione. Ciò in virtù del fatto che le analisi sulla persona hanno prevalso su quelle inerenti allo studio dell’opera ad iniziare dal suo primo biografo, quel Giovan Battista Manso che scriverà di un poeta che «ebbe, per ispezial dono di Dio, dal vero splendore della santa fede per sì maraviglioso modo illuminata la mente, che né per debolezza di giudizio nell’età puerile, né per l’acutezza d’ingegno nel calor della gioventù, gli cadde giammai nel pensiero dubitazion veruna intorno a’ misteri della nostra cristiana religione».[2] La fase “agiografica” non cambiò molto neppure coi successivi studi, ovvero con la biografia di Pier Antonio Serassi e gli studi di Cesare Guasti, curatore dell’imponente epistolario.[3] Con il De Sanctis si passa direttamente all’altro versante,  ossia ritenere la religiosità tassiana solo come aspetto formale, un giudizio negativo che è persistito nel tempo: «che cos’è dunque la religione nella Gerusalemme? È una religione alla italiana, dommatica, storica e formale: ci è la lettera, non ci è lo spirito. I suoi cristiani credono, si confessano, pregano, fanno processioni; questa è la vernice; quale è il fondo? È un modello cavalleresco, fantastico, romanzesco e voluttuoso, che sente la messa e si fa la croce. La religione è l’accessorio di questa vita: non ne è lo spirito».[4] Per avere  delle valutazioni più “scientifiche” bisognerà attendere Eugenio Donandoni, che elabora sicuramente il giudizio più severo intorno alla portata della sfera spirituale tassiana allorquando scrive che il poeta «anche negli anni più fecondi della poesia religiosa,  […] non arrivò mai ad un senso profondo e vivo della religiosità», concludendo che “la sua volontà rimane attaccata alla terra sempre. […] Dio non gli parla nella solitudine: […] nella solitudine egli pensa al mondo, che è rimasto alle sue spalle. [..] La religiosità delle rime sacre è quella esteriore o pomposa» e conclude, in modo lapidario, che  «adorò, ma non sentì Cristo».[5] Seguirono le analisi di Francesco Flora che definisce il Tasso «poeta religioso in un senso tutto umano»,  di Giovanni Getto secondo cui la religiosità del poeta è «una consapevolezza dolente, di natura etica più che propriamente religiosa, ripiegata sulle sue stanche inquietudini, sui suoi timori di peccato e di morte, sulle forme vane che passano e dileguano»[6] e infine di Bortolo Tommaso Sozzi che, partendo dalla Gerusalemme Liberata, individua un  elemento religioso «in senso diverso da quello tradizionale; religioso cioè non entro l’àmbito del cattolicesimo (benché l’ispirazione cattolica occupi quantitativamente molta parte del poema), bensì in una dimensione più larga e indefinita, come sentimento tragico della forza ostile, oscura e fatale che governa la vita, la storia e le cose».[7] Si aprono, allora, due percorsi, ovvero se il poeta sorrentino sia stato un fervido e sincero credente oppure in lui, al contrario,  abbia albergato una fede superficiale: entrambi chiaramente non sono percorribili perché fortemente condizionati da ideologie contrapposte. Ulteriormente non percorribile è un altro itinerario (in realtà ve ne sono anche altri), ovvero quello di uno scrittore che ha un suo sentimento religioso della vita che non coincide, però,  con quello celebrato dal culto ufficiale.[8] Occorre, per tracciare delle direzioni da seguire e tentare una lettura dell’esperienza spirituale tassiana, affidarsi agli ultimi decenni di studi sull’argomento nonché analizzarne lo sviluppo – perché c’è stato – nello stesso autore partendo dal vastissimo corpus delle lettere. La lettera del 15 aprile 1579, lunghissima,  è indirizzata a Scipione Gonzaga e ha la parte più interessante nel punto in cui si apre una digressione costituita da un’apostrofe a Dio: la struttura è quella di una vera e propria emendatio rispetto alla condotta morale giovanile e  alle precedenti posizioni filosofiche, ma soprattutto è uno spartiacque nelle vita dell’autore,  preoccupato di dimostrare la sua conversione alla fede cristiana. Dai dubbi e dalle incertezze, nati dall’esercizio dell’intelletto, e dall’aver assimilato Dio alle idee di Platone, agli atomi di Democrito, alla mente di Anassagora, all’amicizia di Empedocle e alla materia prima di Aristotele, tramite la teologia negativa (ricavata dallo Pseudo-Dionigi) e un ragionamento sillogizzante aristotelico ricompone il conflitto e concilia le asserzioni contrastanti («io ti conosceva solo come una certa cagione de l’universo […]. Ma dubitava poi oltra modo, se tu avessi creato il mondo»),  come si può seguire nei due passi riportati della lettera:[9]

«Dunque non mi scuso io, Signore, ma mi accuso, che tutto dentro e di fuori lordo e infetto dei vizi de la carne e de la caligine del mondo, andava pensando di te non altramente di quel che solessi talvolta pensare a l’idee di Platone e a gli atomi di Democrito, a la mente di Anassagora, a la lite e a l’amicizia di Empedocle, a la materia prima d’Aristotele, a la forma de la corporalità o a l’unità de l’intelletto sognata da Averroe, o ad altre sì fatte cose de’ filosofi; le quali, il più de le volte, sono più tosto fattura de la loro imaginazione, che opera de le tue mani, o di quelle de la natura tua ministra. Non è maraviglia, dunque, s’io ti conosceva solo come una certa cagione de l’universo, la quale, amata e desiderata, tira a sé tutte le cose; e ti conosceva come un principio eterno e immobile di tutti i movimenti, e come signore che in universale provvede a la salute del mondo e di tutte le specie che da lui sono contenute. Ma dubitava poi oltra modo, se tu avessi creato il mondo, o se pur ab eterno egli da te dipendesse: dubitava, se tu avessi dotato l’uomo d’anima immortale, e se tu fossi disceso a vestirti d’umanità; e dubitava di molte cose che da questi fonti, quasi fiumi, derivano. Percioché come poteva io fermamente credere ne i sacramenti, o ne l’autorità del tuo pontefice, o ne l’inferno, o nel purgatorio, se de l’incarnazion del tuo Figliuolo e de la immortalità de l’anima era dubbio?

Divenuto io, dunque, omai giusto misuratore de le deboli forze del mio intelletto, così fra me stesso ragionava: Chi mi dimandasse, che fosse la materia prima; che altro saprei rispondere, se non ch’ella non è, né il che, né il quanto, né il quale, né altra cosa è, che si possa o co ‘l dito mostrare o con le parole diffinire? E se pur questa risposta non mi piacesse, ricorrerei forse a qualche somiglianza; e direi, che tale ella è in rispetto de le forme naturali, quale è l’oro e l’argento in rispetto de le artificiali: percioché sì come di questi metalli si posson fare e monile e medaglia e coppa da bere e vasi da oprar ne la tavola o da por ne la credenza per ornamento; così ella è atta a ricevere la forma de la vite, de la palma, del leone, del destriero e de l’uomo o di che altro si sia. Dunque, se de la materia prima, vilissima e ignobilissima cosa, io non ho altra cognizione, né posso darla altrui, se non quella che o negando o paragonando s’appresenta a l’intelletto; ardirò io d’aspirare a l’altissima cognizione d’Iddio nobilissimo e perfettissimo? o presumerò di significare altrui quello che io non intendo? o mi parrà strano o maraviglioso, se io non sono atto a conoscerlo o a parlarne in modo o con paragone, che a la sua maestà sia convenevole? perciochè la luce del sole è oscura, e la grandezza de l’oceano è una brevissima stilla d’acqua, s’a Dio s’assomiglia. Negherò dunque di sapere quel che sia Dio, ma non già di saper ch’egli sia.

E continua ancora: «Negherò dunque di sapere quel che sia Dio, ma non già di saper ch’egli sia; essendo questo sì chiaro, che può esser certissimo principio a provar l’altre cose de le quali si dubita». La presenza di Dio, infatti, è nella stessa armonia mundi. Così procedendo si arriva alla conclusione del dissidio (pur se l’utilizzo del futuro ha qualche venatura dubitativa):

Crederò dunque che sia Dio; e crederò di lui quel di più che per rivelazione se ne sa: ch’egli sia trino e uno; e che il suo Verbo nel ventre verginale di Maria si vestisse d’umanità; e che egli ascendesse in cielo, e che lasciasse Piero vicario in terra: e crederò che la vera e certa determinazione così di questi, come di tutti gli altri articoli de la fede, si debba prender da’ pontefici romani, che sono di Piero legittimi successori.

Queste pagine sono state lette da Claudio Gigante come «il pianto drammatico di chi teme di essere escluso dalla Grazia»,[10]  ossia come documento del percorso di ricerca della fede che il poeta compie e dichiarerà successivamente di avere portato a compimento. Ne sono testimonianza altre due lettere: la prima del 1580 e la seconda del 1585. Quella  indirizzata al marchese Giacomo Boncompagni è una sorta di confessione, con finalità autoapologetiche, sui dubbi di fede che il Tasso nutriva sia come “filosofo” (circa l’immortalità dell’anima, la creazione del mondo, l’autorità papale) che come cristiano:

Il disfavore […] ch’io aveva ricevuto da la Chiesa, la quale a me s’era môstra non madre ma madrigna […] era cagione non solo ch’io fondassi ogni buona speranza di favore ne la parte imperiale, ne la quale potea fondarlo senza separarmi  da la Chiesa in quel c’a la fede appartiene».[11]

È una ricerca,  quella tassiana, intesa a superare l’insoddisfazione, il tormento, le incertezze e non certo la rappresentazione di una persona scettica o aliena dalla fede cristiana. E nella lettera al Cataneo del 1585, quando la prigionia stava per concludersi, c’è l’ammissione di una condizione totalmente nuova:

Ma Iddio sa ch’io non fui né mago né luterano giammai; né lessi libri eretici o di negromanzia, né d’altra arte proibita […] né ebbi opinione contra la santa Chiesa cattolica; quantunque io non neghi d’aver alcuna volta prestata troppa credenza a la ragione de’ filosofi; ma in guisa ch’io non umiliassi l’intelletto sempre a’ teologi, e ch’io non fussi più vago d’imparare che di contradire. Ma ora che la mia infelicità ha stabilita la mia fede, e fra tante sciagure ho questa sola consolazione, ch’io non ho dubbio alcuno.[12]

Tasso si avvicinerà a Dio attraverso  la sofferenza, le sventure e le vicissitudini; la fede è l’approdo di quello «sforzo teso a superare gli ostacoli che la ragione stessa gli poneva innanzi» e «va considerato come una mèta cercata e desiderata, non come un triste epilogo indotto da pressioni esterne o, peggio, da “follia”»[13]. La testimonianza di queste tre lettere, tutte del periodo di Sant’Anna, ci indicano chiaramente l’avvio di un percorso che il poeta sorrentino, negli anni successivi, perseguirà sempre più: sia le letture (San Tommaso e la patristica occidentale)[14] che le opere (le Rime sacre, Il Mondo creato e il rifacimento della Liberata) andranno ormai di pari passo alle questioni religiose.


[1]  Il verso riportato nel titolo è tratto da Torquato Tasso,  Rime, Roma, Salerno editrice, 2 tomi,  2, n. 1696 (A Dio), v. 6, p. 1949.

[2] Giovan Battista Manso, Vita di Torquato Tasso, a cura di Bruno Basile, Roma, Salerno editrice, 1995, p. 218. Nella stessa pagina aggiunge che il poeta fu continuamente riverente e devoto «a Santa Chiesa e a’ suoi  ministri, che giammai ne favellò motteggiando, o scherzando, come alcuni fanno». Intorno alla religiosità tassiana si veda il fondamentale studio di Giuseppe Santarelli, Studi sulle rime sacre del Tasso, Bergamo, Centro di Studi tassiani, 1974  (soprattutto le pagine 11-49, La religiosità del Tasso).

[3] Nella Vita di Torquato Tasso scritta dall’abate Pierantonio Serassi, Bergamo, Locatelli, 17902, 2 tomi,  2, pp. 276-277,  si legge:  «Egli sin dalla prima fanciullezza fu molto divoto, ed osservantissimo della cattolica Religione; e sebbene nel bollore della giovanezza si fosse lasciato alquanto trasportare da’ piaceri amorosi; si ravvide tuttavia presto, e diedesi di nuovo ad una vita molto religiosa ed esemplare; il qual tenore osservò poi costantemente insino alla morte». Per ciò che scrive il Guasti si rimanda a Della vita intima di Torquato Tasso, in Torquato Tasso, Le Lettere,  disposte per ordine di tempo ed illustrate da Cesare Guasti, Firenze, Le Monnier, 1852-1855, 5 voll.,  V, pp. XXI-XXII.

[4] Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di Benedetto Croce, Firenze, Sansoni, 1965, 2 voll.,  2, p. 562.

[5] Eugenio Donadoni, Torquato Tasso. Saggio critico, Firenze, Luigi Battistelli, 1920, 2 voll., 2, pp. 203, 204, 205 e 209. Nel vol. 1, a proposito della Liberata, aveva scritto «Tutta forma è nel poema anche la religiosità» (p. 356).

[6] Per le citazioni cfr. Francesco Flora, Storia della letteratura italiana,  Milano, Mondadori, 1941, vol. II,  p. 548 e Giovanni Getto, Malinconia di Torquato Tasso, Napoli, Liguori, 19864, p. 303.

[7] Bortolo Tommaso Sozzi, Introduzione, in Opere di Torquato Tasso, Torino, Utet, vol. I, 1974, p. 20.

[8] Sulla spiritualità tassiana si vedano anche: Luigi Russo, La Gerusalemme liberata del Tasso, in «La Rassegna della Letteratura Italiana», 6, 1 (gennaio-marzo 1955), pp. 1-11; Antonio Corsaro, Percorsi dell’incredulità. Religione, amore, natura nel primo Tasso, Roma, Salerno editrice, 2003; Rosa Giulio, Tempo dell’inquisizione, tempo dell’ascesi. Spiritualità religiosa e forme letterarie dal Tasso al Settecento, Salerno, Edisud, 2004;  Ottavio A. Ghidini, Poesia e liturgia nella Gerusalemme liberata, in «Studi Tassiani», 56-58  (2008-2010), pp. 153-180; Decio Pierantozzi, La Gerusalemme liberata come poema religioso, in «Studi Tassiani», 32  (1984), pp. 29-42;   Angelo Alberto Piatti, “Su nel sereno de’ lucenti giri”. Le «Rime sacre» di Torquato Tasso, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2010;  Marco Corradini, Ottavio A. Ghidini (a cura di), Senza te son nulla. Studi sulla poesia sacra di Torquato Tasso, Roma – Milano, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016; Corrado Confalonieri, Provare per credere. Tasso, Dante e l’incarnazione nella Gerusalemme liberata, in «Lettere Italiane»,  vol. 70, n. 2 (2018), pp. 254-284.

[9]  La lettera si legge in Torquato Tasso, Le Lettere, ed. cit.,   II, pp. 7-45,  n. 123 e si cita rispettivamente dalle pagine 15 e 19-21. 

[10] Cfr. Claudio Gigante, Tasso, Roma, Salerno editrice, 2007, p. 36.

[11] Torquato Tasso, Le Lettere, ed. cit., II, n. 133, p. 84-85.

[12] Torquato tasso, Le Lettere, ed. cit., II, n. 456, pp. 478-479.

[13] Claudio Gigante, Tasso, cit., pp. 36-37.

[14] Nelle lettere (almeno dall’estate del 1586)  si registrano richieste dei libri di San Tommaso e Gregorio Magno, di Gregorio di Nazianzo e Filone Ebreo, e soprattutto di un’edizione delle opere di Sant’Agostino (una stampa edita a Ginevra nel 1555). «In quest’ultimo periodo della vita umana e poetica di Tasso, il rapporto con il sacro, la dimensione religiosa acquistano un ruolo predominante, l’incubo dell’Inquisizione non tormenta più i sonni di Torquato, che ha ormai trovato un perfetto equilibrio con le gerarchie ecclesiastiche e con i canoni della poetica aristotelica. Non più una necessità di simulare, un artificioso compromesso con la fede, ma una sua scelta coerente, motivata dall’aspirazione al trascendente, dall’ascesi all’Assoluto, che il poeta esprime nelle forme liturgiche delle sue liriche spirituali, nelle angosciate preghiere delle rime sacre»  (Rosa Giulio, Tempo dell’inquisizione, tempo dell’ascesi, cit., p. 88).


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Dialoghi con la notte. Appunti su “Lezione di meraviglia” di Daniele Ricci. A cura di Francesco Fioretti

   I cinque versi iniziali di Lezione di meraviglia di Daniele Ricci ne preannunciano subito tutta la vastità d’orizzonti: «Finalmente questa notte esco dal romitorio. / Faccio ricorso al tuo φάρμακον /    per varcare le porte. // Vado al mare / del mio dolore amaranto».

   Ci torna subito in mente l’ultima scena dei Malavoglia, in cui il giovane ’Ntoni misura la sua esclusione dall’ambiente d’origine gettando un’occhiata sul mare «che s’era fatto amaranto». Mare amaranto verghiano che era ancora quello omerico color del vino, il mare ancestrale e sacro di una tradizione millenaria, che il poeta simbolicamente riattraversa nelle prime due sezioni di questa raccolta (Lezione di meraviglia e La strada del ritorno) raccontandoci un viaggio in Grecia – ma del viaggio ciò che qui si vede è in realtà solo la bianca nave, il viaggio in sé, mentre i «bianchi palazzi di Atene / le strade trafficate del Pireo» restano piuttosto sullo sfondo, come tracce marginali e fugaci di un incontro che si direbbe fisicamente mancato, nella Grecia odierna, con la classicità. Il phàrmakon menzionato al secondo verso è invece la poesia, veleno e rimedio al tempo stesso (nell’ambiguità del termine greco), mentre la meraviglia del titolo è il thaumàzein da cui secondo Aristotele nasce ogni interrogazione sul mondo.

   Sono in tutto sette, le sezioni di questa raccolta, e ciascuna ha un suo cuore di sperimentazione discreta, i cui estremi opposti sono l’autobiografismo diretto della IV sezione, Semi non custoditi («Poi / cos’è successo in quinta elementare? / Che cosa m’ha fatto cambiare? // Sono diventato triste e taciturno… // Qualcosa m’ha fermato»), e la poesia senza io di Poemetto (V sezione, Approdi e amore), le cui terzine hanno invece quasi voce d’aforismi(«Il non senso contamina il senso. / L’amore appartiene all’enigma, / l’enigma alla follia»).

   Le altre sezioni dosano in vario modo questi estremi, anche in una serie di preziosi richiami a distanza che danno compattezza all’opera. Si veda il caso seguente: «Ieri in cielo ho visto l’Aquilone… // Te ne sei andata nel buio nulla / senza lasciare traccia, / senza briscola né punti» (dalla III sezione, Il tuffatore di Paestum); «Hai spento la luce della tua stanza / e le stelle dell’Aquilone» (dalla VI sezione, Ho imparato a piangere).

   In una delle versioni del mito, che si fa risalire a Eratostene, l’Aquilone è Arcas, che accompagna in cielo la madre Callisto trasformata in orsa – ma qui è anche l’oggetto evocato dalla costellazione (lo è senz’altro in Come un aquilone, da Semi non custoditi: «Non potrò mai unirmi / al cielo / alle traiettorie del tuo volo»). In ogni caso il tema della perdita, della scomparsa della madre, dell’elaborazione del lutto proiettato in una dimensione celeste pagano-cristiana, è uno dei motivi-chiave della raccolta, l’urgenza che si avverte più immediata per un ritorno alla scrittura poetica e all’uscita dal romitorio. Pressanti domande di senso, sull’«ἀρχή della vita» (Nella camera del mattino, II sezione), in un costante «dialogo con la notte» (Bagno fuori stagione, VII sezione, Fuori stagione), attraversano l’intera raccolta, allargando progressivamente il campo dal dolore privato a quello collettivo, dal gesto disperato delle donne afghane che lanciano i loro bambini ai soldati inglesi all’aeroporto di Kabul già occupato dai talebani (La fuga tentata, II sezione, e I giorni, VII) alla guerra in Ucraina (Boristene, VII, dal nome greco del Dnepr).

   Daniele Ricci è poeta colto, come d’altra parte lo sono tutti i grandi della nostra tradizione, perché il sentire verrà pure dall’enigmatico io latore d’ogni verità e d’ogni inganno, ma le parole per esprimerlo vanno munte a quella tradizione millenaria con cui è sempre doveroso fare i conti. C’è un fondo costante, nelle sue poesie, un sapore di lirica eterna che viene dagli antichi Greci, in particolare da Omero e dai poeti arcaici (l’incontro con la classicità che riesce su un altro piano rispetto a quello del viaggio fisico), su cui si innesta il presente drammatico (la madre e il lutto, le donne di Kabul, la guerra in Ucraina) che rimescola invece voci più moderne, il Montale da Satura in poi, i poeti italiani contemporanei («la voltura delle utenze di mia madre / per la mia crescita interiore»; i «cedolini del silenzio»). Mentre l’analogismo della lirica pura novecentesca viene praticato con grande parsimonia, restando per lo più confinato a campi inediti. Il principale è il gioco del calcio, che suggerisce immagini inesauribili e mai banali («Aspetto di battere / l’ultimo calcio di rigore, / sarà concesso all’alba / di questa notte senza camomilla»; «un ultimo verso / per cercare / la rete della salvezza»), nonché liriche memorabili come La partita eterna (IV).

  Daniele Ricci, insomma, coniuga al presente una voce che sembra d’ogni tempo, costruendo una miscela linguistica originale e avvolgente. La poesia resiste al «canto del nulla» che «scappa via / tra le repliche e gli ingorghi / di una lingua agonizzante» (Il dolore sul cuscino, IV). Lui ci dice: «Voglio tessere un abito nuovo / sulla pelle del mondo» (Mi sono perduto, V).

   E questo è anche quello che effettivamente fa.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Ut pictura poësis. La forma dello Spirito nell’opera di quattro celebri artisti-poeti”, saggio di Wanda Pattacini

Immagino lo Spirito come un soffio vitale che da lontano sfiora le chiome degli alberi spogli, senza foglie, sullo sfondo di un cielo indaco, quando la Natura è immobile e non c’è ragione fisica che giustifichi il vento. L’artista, ad occhi chiusi, attende l’ispirazione. Non indaga più le ragioni del suo sentire così profondo e oscuro, né del suo vedere al di là dell’apparenza effimera e fugace. Ormai sa: è solo uno strumento attraverso cui l’Essere sussurra o urla, rivelandosi. Ha risposto a quella chiamata da veggente, votandosi ad una esistenza spesso fuor di regola. Talvolta ha invidiato l’inconsapevolezza dell’uomo comune, ma non ha mai rinunciato al proprio dono, rimanendo fedele a se stesso e affinando le proprie doti espressive per tradurre in parole, colori, forme o note i quesiti insondabili dell’Esistenza.

Talora la chiamata dello Spirito è talmente forte che un’Arte non basta per dargli espressione. Un rapporto privilegiato è il binomio poesia-arti figurative. Già nella letteratura antica la relazione parola-immagine è frequente nell’uso della figura retorica dell’ekphrasis in grado di eternare in prosa o in poesia la magnificenza di manufatti artistici ideati dall’uomo. Si pensi allo scudo bronzeo di Achille descritto in un celebre passaggio dell’Iliade omerica o alla preziosa veste ricamata offerta come premio di una gara di corsa nella Tebaide di Stazio.

In questa sede, però, non indagheremo il potere del metodo ecfrastico in grado di trasformare le parole in pennello. Al contrario, passeremo in rassegna l’attività di quattro grandi personalità di artisti-poeti che hanno lasciato un segno indelebile e ineguagliabile usando diversi e molteplici mezzi espressivi, sempre allo scopo di dara forma visibile all’Invisibile.

Michelangelo Buonarroti

Secondo lo storico dell’arte cinquecentesco Giorgio Vasari l’artista che fra i morti e i vivi porta la palma e trascende e ricuopre tutti è il divino Michelangelo Buonarroti (1475-1564), ovvero colui che raggiunse l’eccellenza nelle tre arti maggiori – pittura, scultura e architettura – superando persino gli antichi. Sono capolavori universalmente noti il David marmoreo, la Pietà del Vaticano, gli Ignudi in torsione e le Sibille visionarie della volta della Cappella Sistina, la Cupola di San Pietro, metafora della volta celeste. Meno conosciuta al grande pubblico, invece, è l’attività di Michelangelo come poeta. Per comprendere l’importanza che la pratica letteraria rivestiva per lo scultore toscano basta citare le sue parole al momento dell’invio all’amico Vasari di due liriche di intonazione spirituale: “Messer Giorgio, io vi mando due sonecti; e benchè sien cosa scioca, il fo perchè veggiate dov’io tengo i miei pensieri”. Una cosa scioca dunque, eppure depositaria dell’inquietudine e della passione che ha animato i capolavori del Buonarroti, che ricomponeva, correggeva e riformulava i propri scritti poetici sempre in cerca dell’immagine più adeguata e della parola più adatta per esprimere verbalmente un concetto o uno stato d’animo. Le sue Rime, quindi, non sono un puro esercizio accessorio, ma il frutto di una vocazione autentica che completa e arricchisce la sua attività di artista.

Si pensi, a tal proposito, alla dibattuta questione del non finito michelangiolesco. Si tratta di un procedimento tecnico-artistico adottato sistematicamente dallo scultore che contrappone parti scolpite, finite e levigate a parti lasciate allo stato di abbozzo. Variamente interpretata come il “non portato a termine” o il “non pagato”, la spiegazione più suggestiva di questa pratica si rintraccia nella filosofia neoplatonica di cui l’artista era imbevuto sin dai tempi della frequentazione della cerchia di Lorenzo il Magnifico. Secondo quest’ottica, allora, gli incompleti Prigioni ideati per la Tomba di papa Giulio II sarebbero perfetti così, eternando il conflitto tra lo Spirito, levigato e netto riflesso della perfezione divina, e il Corpo, che intrappola l’Anima nelle spire della materia solo sbozzata e inerte, impedendole di raggiungere il suo Creatore. A supporto di questa teoria interviene il celebre sonetto “Non ha l’ottimo artista alcun concetto”, che esplicita l’idea michelangiolesca secondo cui la statua è già presente nel blocco di marmo e il compito dell’ottimo artista è semplicemente liberarla dal suo superchio, ovvero l’eccesso di materia, lasciando che la propria mano sia guidata dall’intelletto. Per Michelangelo, quindi, la scultura per via di levare è l’unica forma di scultura concepibile, come attestato dal madrigale “Sì come per levar, donna, si pone”. In questo componimento l’effetto della donna sull’amante è liberatorio e nobilitante perché in grado di liberare dalla sua carne (cruda e dura scorza) l’anima (l’alma che pur trema) dell’artista privo di volontà e di forza. Alla stessa maniera la viva figura della statua è liberata dalla pietra alpestra e dura grazie alla mano dello scultore.

Una interessante analogia si riscontra tra lo stile poetico e lo stile artistico del divino Michelangelo: in poesia è insofferente ai vincoli delle forme metriche obbligate, prendendo ispirazione dal modello dantesco e dalla regola petrarchesca, rinnovandoli, però, con uno stile più personale e riflessivo; nelle arti figurative e in architettura egli fissa in principio i canoni ideali della perfezione rinascimentale, per poi scardinarli dall’interno, configurandosi, quindi, come il primo manierista nella Storia dell’arte.

Artista visionario e poliedrico l’inglese William Blake (1757-1827) si distingue come incisore, poeta e pittore protoromantico. I limiti della realtà sensibile sono stretti per lui che indaga i temi della Bibbia con grandi stampe a colori e il mondo spirituale della Commedia dantesca con miniature. Come letterato – o dovremmo meglio dire veggente – ha ideato mondi immaginari divisi tra le opposte forze del Bene e del Male. I due stati contrari dell’anima umana trovano espressione nei Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza.

William Blake

Il confronto tra The Lamb e The Tyger è da manuale: le due poesie, che ad una prima lettura superficiale evocano due veri animali con le loro caratteristiche, condividono in realtà un significato più profondo, ovvero il problema della Creazione e dell’identità del Creatore (Little Lamb, who made thee?Tyger! […]What immortal hand or eye/could frame thy fearful symmetry?). L’agnello, allora, rappresenta la perfetta innocenza dell’infanzia e la tigre il male che proviene dall’esperienza. Ma l’innocenza è anche uno stato dell’anima che può essere presente in un adulto (si pensi al pronome I riferito al poeta stesso) e gli occhi ardenti (burning) della tigre bruciano di rabbia e violenza, ma sono anche luminosi (bright), trasformando l’animale in qualcosa di splendente, forse la luce dello Spirito che sottomette l’errore e l’ignoranza delle tenebre della notte (forests of the night). Lo stile poetico di Blake è essenziale, nudo e musicale: con un ritmo incalzante denso di simboli ed allegorie è in grado di tradurre in parole visioni mistiche e immaginifiche.

Una battaglia cosmica tra il Bene e il Male frutto di una spiritualità anticonformista si concretizza anche in campo pittorico, in particolare nelle opere del ciclo di acquerelli de Il Grande Drago ispirato ad alcuni passaggi dell’Apocalisse biblica. La speranza luminosa di una Donna incinta vestita di Sole – metafora della Chiesa o della Vergine Maria – si oppone alle cupe tenebre del Male incarnato in un enorme drago a sette teste e dieci corna, che cede i suoi poteri infernali ad una Bestia venuta dal mare. La forza mistica delle immagini apocalittiche è resa da Blake attraverso un segno grafico semplificato ed essenziale: una linea quasi fumettistica definisce figure surreali che dominano fondali evanescenti, privi di indicazioni di profondità, ad alludere ad una dimensione altra, parallela ed alternativa a quella umana.

Edvard Munch

L’indagine dello Spirito e di intensi stati emotivi è il principale oggetto di interesse dell’artista norvegese Edvard Munch (1863-1944). E la Natura è il suo mezzo di espressione. Così scriveva il pittore sul suo taccuino nel 1908: “la Natura non è soltanto ciò che è visibile all’occhio – sono anche le immagini interiori dell’anima – sul lato posteriore dell’occhio”. I dipinti dell’artista postimpressionista, infatti, esplorano i sentimenti più profondi e inquietanti della psiche umana e le forme naturali ancora riconoscibili in essi sono solo un pretesto simbolico per alludere agli abissi segreti dell’anima tormentata di Munch che, per primo, è riuscito a dare una voce universale alla propria angoscia personale, tracciando la strada della rivoluzione artistica del Novecento.

Questo importante e sofferto percorso pittorico è affiancato da una copiosa e variegata produzione scritta carica di lirismo, con cui il pittore indaga il significato dell’arte, racconta gli ambienti e i personaggi della propria vita, completa e chiarisce il significato dei propri dipinti, spesso considerati oscuri. Egli sperimenta molteplici generi – prose liriche, schizzi letterari, lettere di viaggio, articoli di giornale, pagine di diario – per i quali pensava alla pubblicazione, come si deduce dal testamento con cui lasciava le bozze dei propri lavori al Comune di Oslo. Il doppio trattamento di alcuni motivi in maniera sia artistica sia letteraria è indicativa del suo modus operandi. Le molteplici e celebri versioni de L’Urlo si accompagnano, infatti, ad altrettanti testi che chiariscono il significato e potenziano la forza espressiva di un quadro divenuto icona del mal di vivere. Queste le parole scritte da Munch nel 1892:

Camminavo lungo

la strada con due

amici – poi calò

il sole

Il Cielo

si fece

all’improvviso rosso sangue

Mi arrestai, appoggiandomi

contro la balaustra mortalmente

stanco – il fiordo nero-blu

e la città

erano lambiti da lingue di sangue

I miei amici proseguirono

e io rimasi immobile

tremante

d’angoscia –

e udii riecheggiare

attraverso

la natura

un immenso infinito

grido.

La recente traduzione in lingua italiana di una selezione di scritti di Munch consente di apprezzare a pieno il parallelismo artistico e letterario dell’artista norvegese, rendendo note composizioni ancora sconosciute al grande pubblico. Ne emerge anche un interessante confronto tra uno stile di scrittura rapido e spontaneo che, trascurando ortografia e punteggiatura, esprime i moti dell’animo nella loro cruda immediatezza, e uno stile pittorico nudo ed essenziale, basato su semplificazioni deformanti e colori arbitrari, riflesso dei colori dell’Anima.

Paul Klee

Posto sulla soglia chiaroscurata tra il Visibile e l’Invisibile, l’artista svizzero Paul Klee (1879-1940) osserva l’incontro tra il mondo esterno e il mondo interiore, intuendo il Mistero che si nasconde dietro l’esperienza più sensibile e quotidiana, senza mai riuscire ad afferrarlo, ma suggerendone le tracce attraverso molteplici arti. Musicista, poeta e pittore egli ricerca costantemente la forma d’arte a lui più congeniale per tradurre in un codice decifrabile la chiamata mistica dello Spirito. Se è con la pittura che ha cambiato il corso della Storia dell’arte, ispirando generazioni di artisti, si cimenta con successo anche nell’arte della parola. I suoi Diari, ricchi di aforismi, poesie e annotazioni, sono costruiti, infatti, come un sapiente oggetto letterario. Sia nella pagina dipinta sia nella pagina scritta la sua cifra stilistica risiede nella inafferrabilità e nella mutevolezza che apre infinite possibilità alla sua forza creatrice, impedendogli di assumere una forma fissa ed una regola troppo rigorosa che insterilisca il suo daimon. Nel 1901 Klee scrive:

Non chiederti cosa sono.

Non sono nulla

non so nulla.

Conosco solo la mia felicità.

Ma non chiedermi se me la merito.

Lasciatemi solo dire

che è ricca e fonda.

In una celebre poesia del 1920 – riportata anche sulla sua lapide – afferma:

Qui sono inafferrabile

abito bene con i morti

come con i non nati. Sono

vicino alla creazione. Eppure

non abbastanza.

Così come le sue parole sono magiche ed evocative, aperte a molteplici e suggestive interpretazioni, il suo stile pittorico è ricco e variegato e, pur rifuggendo da classificazioni ed etichette, la sua è una pittura di luce, fatta di segni impalpabili e leggeri e toni liquidi che trascolorano. Egli è in grado di decifrare la lingua dello Spirito, che incanta chi è pronto ad ascoltarla. Nel dipinto Strada principale e strade secondarie, ad esempio, tasselli acquerellati di colori azzurri e aranciati si compongono in una trama definita da linee sottili e pur dense di lirismo, quasi fossero venature del marmo o del legno: la via principale è tracciata, ma la Vita percorre vie traverse e inaspettate.

Se dopo questa breve disamina dell’opera di queste quattro geniali personalità vi starete chiedendo quale sia la forma espressiva più adatta ad eternare lo Spirito, la mia risposta è il motto oraziano ut pictura poësis: Poesia ed Arte sono sorelle, figlie del Vento dell’Ispirazione che muove la mano di artisti e poeti, o, forse, gemelle se si segue il pensiero del poeta lirico greco Simonide secondo cui la pittura è poesia silenziosa, la poesia è pittura che parla.


Bibliografia

Blake William, Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza che mostrano i due contrari stati dell’anima umana, a cura di Roberto Rossi Testa, Milano, Feltrinelli Editore, 2009

Botta Gregorio, Paul Klee. Genio e regolatezza, Bari-Roma, Laterza, 2022

Buonarroti Michelangelo, Rime, a cura di Paolo Zaja, Milano, Rizzoli Bur, 2010

Klee Paul, Poesie, a cura di Giorgio Manacorda, Milano, Ugo Guanda Editore, 1978

Munch Edvard, La danza della vita. La mia arte raccontata da me, Roma, Donzelli Editore, 2022

Plutarco, La gloria di Atene, a cura di Italo Gallo e Maria Mocci, Napoli, D’Auria, 2003

Vasari Giorgio, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino ai tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, a cura di Luciano Bellosi e Aldo Rossi, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1986


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “L’itinerario spirituale di Vittoria Colonna”, saggio di Graziella Enna

Nella civiltà umanistico-rinascimentale iniziò un processo di emancipazione femminile in virtù del quale molte donne furono istruite al livello degli uomini. Alcune riuscirono ad acquisire una profonda cultura unita alla volontà di ribellarsi ai pregiudizi misogini che le avevano relegate in una posizione subalterna. L’educazione impartita alle donne era tradizionalmente basata su attività considerate utili da svolgersi nell’obbedienza, nell’abnegazione e nel silenzio. Nonostante questi presupposti poco edificanti, alcune donne provenienti dall’aristocrazia e alla nobiltà minore integrata nelle corti, si riscattarono e divennero poetesse stimate e apprezzate come Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara e molte altre.

Com’era prevedibile, la congerie maschile continuò a nutrire ostilità nei confronti di quelle donne che, tramite la scrittura, vagheggiavano di mostrare la loro anima e il loro mondo interiore abbandonando “l’ago e il fuso” strumenti fin dal medioevo simboli per eccellenza delle occupazioni femminili. Altre non ebbero la possibilità di farsi conoscere o furono giudicate devianti. Chi era disposto ad accettarne l’istruzione o la produzione letteraria nutriva il pregiudizio che si trattasse di creature fuori dal loro ruolo naturale che, nell’immaginario collettivo, era solo quello di vergine o moglie e madre, non certo di scrittrice o intellettuale. Anche la diffusione, soprattutto nelle corti, del petrarchismo e dei cosiddetti “petrarchini”[1], assunsero un ruolo importante, poiché fissarono l’uso di un codice espressivo proprio della convenzione amorosa tipico però di un mondo maschile.

Non tutte le poetesse furono mere imitatrici di Petrarca e si servirono della poesia solo come pratica sociale legata all’ambiente cortigiano, ma seppero rivisitare autonomamente stilemi e codici linguistici preesistenti con la loro spiritualità alimentata dalla cultura e da sentimenti autentici. Un luminoso esempio ci viene offerto da Vittoria Colonna, donna di alto lignaggio, dalla vita morigerata, ricca e fruttuosa, amata dai contemporanei sebbene le sue liriche fossero conosciute solo da un ristretto numero di amici.

Nata nel 1490 da nobili genitori di prestigiose casate, Fabrizio Colonna e Agnese di Montefeltro, ricevette fin dall’infanzia una raffinata educazione che la fece diventare una delle donne più apprezzate del suo secolo. Il suo fu un matrimonio combinato, a sette anni fu infatti promessa ad un coetaneo, Ferdinando D’Avalos, marchese di Pescara, come suggello di un’alleanza tra due potenti famiglie, ma nonostante i presupposti, il matrimonio si sarebbe rivelato felice. Grazie al mecenatismo dei marchesi, il castello di Ischia, loro residenza e sede di un prestigioso cenacolo letterario aperto alla discussione sui problemi della fede, fu un punto di riferimento importante per i più importanti letterati e poeti del periodo, come Jacopo Sannazaro, Cariteo, Galeazzo di Tarsia, Bernardo Tasso.

L’amato marito si allontanò da Ischia nel 1511 per combattere nella lega antifrancese promossa dal papa guerriero Giulio II e cadde prigioniero nel 1512. In quest’occasione Vittoria compose per lui un’epistola in terzine, per esprimere la sua afflizione, che testimonia la sua vocazione letteraria ed è l’unico che abbia scritto prima della morte del marito. Negli anni successivi conobbe altri famosi intellettuali tra i quali Baldassarre Castiglione e Pietro Bembo, ma la sua fama di nobildonna di specchiata virtù, vasta cultura e grande talento ebbe vasta risonanza ovunque.

A Pavia, nel 1525, in uno scontro con l’esercito francese, il marito morì, Vittoria cadde in uno stato di prostrazione. Iniziò a comporre sonetti dedicati a lui caratterizzati dalla cifra del ricordo, in cui lo descrive come un eroe, l’unico “lume”, il suo “sole” e verso di lui incanala tutta la sua sofferenza che diventa uno strumento di elevazione spirituale.

Nel 1525 Ariosto le dedicò un sonetto[2] per consolarla e allo stesso tempo esortarla a temperare il suo dolore con la sua virtù capace di innalzarla fino al cielo insieme con la gloria dello sposo. Anche Baldassarre Castiglione nel 1928 scrisse lusinghiere parole per lei nell’introduzione del Cortegiano.[3] Parimenti la sua fama di poetessa si diffuse rapidamente: nel 1532 Ariosto ne cantò le lodi nell’ultima edizione del Furioso citandola nel canto XXXVII in cui, dopo aver accennato a vari scrittori che encomiarono le donne, coglie l’occasione per tessere elogi per lei e per le rime gentili dedicate alla memoria dell’amato[4]. Vittoria riversò il suo dolore in liriche intrise di sofferenza in cui si avverte il desiderio di morire e di ricongiungersi presto al marito. Un esempio è offerto dal sonetto LXXXII di chiara ascendenza petrarchesca in cui la poetessa esprime il suo dolore al sorgere del mattino che non rappresenta un momento di gioia bensì di tristezza perché le richiama alla mente la sua condizione di solitudine. La sua sorte triste la induce dunque a cercare le tenebre che si identificano con la morte e la conducono al suo “sole”.

Quando ‘l gran lume appar nell’oriente,

Che ‘l negro manto della notte sgombra,

E dalla terra il gelo o la fredd’ombra

Dissolve e scaccia col suo raggio ardente:

De’ primi affanni, ch’avea dolcemente

Il sonno mitigati, allor m’ingombra:

Ond’ogni mio piacer dispiega in ombra,

Quando da ciascun lato ha l’altre spente.

Così mi sforza la nimica sorte

Le tenebre cercar, fuggir la luce,

Odiar la vita e desiar la morte.

Quel che gli altri occhi appanna a’ miei riluce,

Perchè chiudendo lor, s’apron le porte

Alla cagion ch’al mio sol mi conduce,

Il sonetto XXII si può considerare significativo nel passaggio dall’amore terreno a quello spirituale, Vittoria è da tempo rassegnata al fatto che la morte abbia rotto i vincoli materiali che la legavano all’amato, però se i corpi sono ormai sterili, le anime diventano ancora più feconde e più che mai sono avvinte in un connubio molto più produttivo grazie a cui ella diviene madre metaforica di una prole immortale fatta di spirito. La sua poesia che nasceva dal pianto ora si innalza al cielo.

Quando Morte fra noi disciolse il nodo
che primo avinse il Ciel, Natura e Amore,
tolse agli occhi l’obietto e ’1 cibo al core;
l’alme ristrinse in più congiunto modo.
Quest’è ’l legame bel ch’io prezzo e lodo,
dal qual sol nasce eterna gloria e onore;
non può il frutto marcir, né langue il fiore
del bel giardino ov’io piangendo godo.
Sterili i corpi fur, l’alme feconde;
il suo valor qui col mio nome unito
mi fan pur madre di sua chiara prole,
la qual vive immortal, ed io ne l’onde
del pianto son, perch’ei nel Ciel salito,
vinse il duol la vittoria ed egli il sole.

Benché la donna, dopo il 1525, avesse trascorso un lungo periodo di volontaria reclusione nel castello di Ischia e avesse desiderato anche di chiudersi in un monastero, nel 1530 il letterato Paolo Giovio[5], da sempre vicino alla marchesa a cui era legato da un intenso amore spirituale, tentò di riportarla sulla scena letteraria. Fu proprio lui il tramite con Pietro Bembo, che nel 1535 incluse un suo sonetto nella seconda edizione delle Rime e gliene dedicò un altro[6].

Iniziò un sodalizio poetico rafforzato da un intenso scambio epistolare. Nonostante la vita ritirata e il dolore, riuscì a conoscere molti intellettuali dell’epoca, ma non solo, si avvicinò infatti a religiosi come Juan de Valdés[7], il frate Bernardino Ochino[8], più volte ascoltato a Roma, a Napoli, poi a Ferrara, infine al cardinale Reginald Pole[9]. Iniziò per Vittoria una mutatio animi grazie ad un percorso religioso e alla conoscenza dei personaggi sopraccitati, esponenti del cosiddetto movimento degli “Spirituali” che avevano come principi cardine l’evangelismo e la rigenerazione interiore, temi a cui la marchesa si avvicinò con interesse. Il suo itinerario spirituale la unì anche al più grande artista dell’epoca, Michelangelo[10], che le dedicò un madrigale nel quale paragonava l’azione della scultura che libera la figura dalla materia all’influenza su di lui dell’amica: la donna riesce a introdursi nell’anima pura e fragile “che pur trema” del poeta nascosta dalla “dura scorza” della carne[11]. Le rivolse anche altre rime[12] in cui dice, per esaltare le doti della donna, che in lei sente parlare un uomo, salvo poi correggersi affermando che attraverso la sua bocca sente parlare un dio. L’artista comprese che sarebbe stato completamente soggiogato dal sentimento ma in realtà fu un amore totalmente incorporeo e mistico associato ad un altro elemento in comune con lei, ovvero l’adesione alla corrente degli “spirituali” e ai loro principi.

In virtù della mutatio animi, i componimenti della poetessa denominati Rime spirituali costituiscono uno spartiacque con gli altri, (come nel Canzoniere di Petrarca le rime in vita e in morte di Laura), ed esprimono l’esigenza della solitudine, di un ripiegamento in se stessa e di una profonda introspezione, ma soprattutto di un colloquio diretto con Dio, di un insopprimibile anelito ascetico frutto di una fede pura e sincera.

Dalla lettura dei sonetti si palesa il travaglio interiore, la ricerca inesausta della consolazione della fede, il superamento e la sublimazione delle passioni terrene che gradualmente vengono soppiantate dall’immersione totale nel divino. Tutto ciò non avviene senza contrasti, il suo è comunque un dissidio interiore come emerge chiaramente dal sonetto CXLIV in cui si rileva un atteggiamento di pentimento e vergogna (che sicuramente la accosta a Petrarca), ma anche la sofferenza e la tensione emotiva della donna che palesa la profondità della sua fede e si congiunge con tutta se stessa alla croce di Cristo trovando in lui l’amore prezioso capace di mutare ansia e timore in speranza e giubilo.

Quand’io riguardo il mio sì grave errore,

Confusa al Padre Eterno il volto indegno

Non ergo allor, ma a te, che sovra il legno

Per noi moristi, volgo il fedel core.

Scudo delle tue piaghe e del tuo amore

Mi fo contra l’antico e novo sdegno,

Tu sei mio vero prezïoso pegno,

Che volgi in speme e gioia, ansia e timore.

Per noi su l’ore estreme umil pregasti,

Dicendo: Io voglio, o Padre, unito in cielo

Chi crede in me, sì ch’or l’alma non teme.

Crede ella e scorge, tua mercè, quel zelo

Del quale ardesti sì, che consumasti

Te stesso in croce e le mie colpe insieme.

In un altro sonetto la poetessa immagina di elevarsi oltre le proprie facoltà sensibili per permettere all’anima di avvicinarsi a Dio, il “vero Sole”. In questo viaggio mistico, simile al trasumanar dantesco, impara l’ineffabile, lontano da tutte le cose terrene e può profondarsi nello splendore di Dio che conosce tutti i suoi dolori. Ė evidente anche la variazione del linguaggio utilizzato: agli echi petrarcheschi e danteschi si unisce, come del resto in tutte le rime spirituali, quello biblico. 

Sovra del mio mortal, leggera e sola,

aprendo intorno l’aere spesso e nero,

con l’ali del desio l’alma a quel vero

Sol, che più l’arde ognor, sovente vola,

e là su ne la sua divina scola

impara cose ond’io non temo o spero

che ‘l mondo toglia o doni, e lo stral fero

di morte sprezzo, e ciò che ‘l tempo invola,

chè ‘n me dal chiaro largo e vivo fonte

ov’ei si sazia tal dolcezza stilla

che ‘l mel m’è poi via più ch’assenzio amaro,

e le mie pene a lui noiose e conte

acqueta alor che con un lampo chiaro

di pietade e d’amor tutto sfavilla.      

Nonostante la rettitudine morale, la fede sincera e la ricerca continua di religiosità pura, intima e lontana dalla corruzione, Vittoria attirò a sé l’attenzione dell’Inquisizione romana che per anni cercò di raccogliere prove indagando sui suoi rapporti con i valdesi e con Pole. Fortunatamente, nonostante i sospetti e il fatto che il suo nome spesso ricorresse nelle carte dei processi, non venne pubblicamente accusata, in virtù delle amicizie influenti di cui godeva la sua famiglia, non ultima quella del pontefice Paolo III. Cosa più rilevante, che esula da ogni intervento esterno e che la salvò da ogni accusa di eresia, fu la sua reputazione di donna virtuosa, colta e dall’integrità morale ineccepibile. A maggior ragione stupisce che una poetessa di un tale spessore morale, culturale e religioso, a prescindere dal rango di appartenenza, potesse essere infamata dal fanatismo religioso che non aveva nessun diritto di sindacare sulla sua autentica e sofferta fede di cui i sonetti offrono un’eccelsa testimonianza. Una tale ingiustizia si può spiegare soltanto alla luce di atavici preconcetti su donne brillanti capaci di compiere scelte coraggiose e libere.


Bibliografia

Cosentino Paola, Poetesse del Cinquecento, in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Letteratura, direzione scientifica di G. Ferroni. Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, 2018, pp. 187-192.

Per le biografie: Enciclopedia Treccani online.

Plastina Sandra, “Vittoria Colonna”, in Galleria dell’Accademia Cosentina, Roma Iliesi CNR 2016

Prandi Stefano, “La vita immaginata” vol. 1B, Mondadori, Milano 2019

Rime di tre gentildonne del secolo XVI, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara. Prefazione di Olindo Guerrini, Milano, Edoardo Sonzogno, 1882. Edizione elettronica del 29 aprile 2009.

Salinari Carlo; Ricci Carlo, Storia della letteratura italiana vol.2, Bari, Laterza, 1995


[1] Edizioni in miniatura del Canzoniere di Petrarca e piccoli glossari dei termini più usati dal poeta.

[2]   Illustrissima donna, di valore

ferma colonna, se ’l volubil cielo,

come vedete, or ne dá caldo or gielo,

or vita or morte, or gioia ed or dolore;

     s’egli ha furato ’l vostro primo amore,

ch’è anche l’estremo ed il fral suo velo

sciolt’ha dal spirto anzi il cangiar del pelo,

dando a voi noia, ed a sé eterno onore;[….]

[3]  “L’ingegno e la prudentia di quella Signora, la virtù della quale io sempre ho tenuto in venerazione come cosa divina”., Cortegiano.

[4] XVIII  Vittoria è ’l nome; e ben conviensi a nata

fra le vittorie, et a chi, o vada o stanzi,

di trofei sempre e di trionfi ornata,

la vittoria abbia seco, o dietro o inanzi.

Questa è un’altra Artemisia, che lodata

fu di pietá verso il suo Mausolo; anzi

tanto maggior, quanto è piú assai bell’opra,

che por sotterra un uom, trarlo di sopra.

[5] Paolo Giovio, storico (1483-1552), fu ospite della poetessa Vittoria Colonna e di Costanza d’Avalos. Rimase affascinato dalla donna «a cui fu legato da un amore celeste, santo e platonicissimo, armonia delle cose più belle»,  scrive in una lettera nel 1530 al cardinal Bembo.

[6] CXXVI.Alta Colonna e ferma a le tempeste
del ciel turbato, a cui chiaro onor fanno
leggiadre membra, avolte in nero panno,
e pensier santi e ragionar celeste,
e rime sì soavi e sì conteste,[…].

[7] Juan Valdés (1500-1542), letterato e teologo spagnolo, esercitò un fascino grandissimo nell’alta società napoletana, nella quale diffuse il suo pensiero di una fede ricondotta alla purezza evangelica Della sua lezione si nutrì Vittoria Colonna e, tramite lei, Michelangelo.

[8] Ochino Bernardino (1487-1564) entrò nell’Ordine dei francescani. Cominciò a tessere una fitta rete di rapporti con il circolo di ‘spirituali’ riunitosi intorno all’esule iberico Juan Valdés.

[9] Reginald Pole (1500-1558), cardinale e arcivescovo cattolico inglese, tra i maggiori protagonisti dell’età della Controriforma. A Viterbo raccolse attorno a sé gli Spirituali reduci del circolo napoletano di cui facevano parte, tra gli altri, Vittoria Colonna, il grande artista Michelangelo, il mistico spagnolo Juan de Valdés.

[10] Michelangelo frequentò Vittoria dal 1538 fino alla morte (1547): con lei scambiava rime, vivendo intensamente la propria esperienza dell’amore platonico. La Colonna lo convinse ad aderire alla dottrina di Valdés. Per lei l’Artista realizzò alla fine del ‘500 diverse opere di cui rimangono i disegni preparatori tra i quali la Pietà per Vittoria Colonna e la Crocifissione.

[11] Sì come per levar, donna, si pone

in pietra alpestra e dura

una viva figura,

che là più cresce u’ più la pietra scema;

tal alcun’opre buone,

per l’alma che pur trema,

cela il superchio della propria carne

co’ l’inculta sua cruda e dura scorza [….]

 (Michelangelo, Rime, n. 152)

[12] Un uomo in una donna, anzi uno dio

per la sua bocca parla,

ond’io per ascoltarla

son fatto tal, che ma’ più sarò mio[..]

 (Michelangelo, Rime n.235)


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

Emanuele Marcuccio sul suo progetto culturale ed editoriale di dittici e trittici poetici “Dipthycha”

Era il ventisei marzo 2013 quando ho dato l’avvio al progetto di un volume antologico dal titolo Dipthycha, di particolari dittici poetici, da me definiti “a due voci”[1], per distinguerli dal dittico poetico propriamente detto e scritto da uno stesso autore. L’intento di questo non solito progetto antologico, da me ideato e curato, che vede anche la mia presenza come autore, insieme ad altri, non è quello di scendere in un agone poetico né in una gara; piuttosto è l’amore per la poesia nei suoi diversi stili e modi di esprimerla ovvero la voce della poesia che va oltre la voce del singolo poeta, l’empatia poetica, il tentare di dare una risposta, un ideale continuum alla poesia che precede, senza mai cercare di imitarsi l’un l’altro e rimanendo sempre fedeli al proprio modo di fare poesia per non avere come risultato qualcosa di simile a una poesia a quattro mani[2].

In pratica, non è la poesia che si adegua al dittico a due voci piuttosto il contrario, ragion per cui non sono poche le coppie di poesie dal tema comune non proponibili come dittici a due voci. “Dipthycha” è anche il titolo del progetto, che ho ricavato dal termine originale latino diptycha (–orum), con contaminazione in chiave moderna e riadattamento del dittico – la tavoletta cerata in uso presso gli antichi Romani per scrivervi con lo stilo – in chiave poetica. Infatti, nel libro, in ogni volume del progetto, la prima poesia di un dittico a due voci (o il suo inizio) va posta sempre nella pagina di sinistra, appunto per realizzare una rivisitazione poetica dell’antico dittico. Come sottotitolo per il primo volume ho scelto «Anche questo foglio di vetro impazzito, c’ispira…» parafrasando i versi finali di una poesia che scrissi nel 2010, “Telepresenza”, ispiratrice del primo dittico a due voci intercorso con la poetessa Silvia Calzolari, era il nove maggio 2010. L’idea di questi dittici è nata su internet e davanti a un PC, attraverso e partendo da quel “foglio di vetro impazzito”.

«Sì, è l’affinità elettiva poetica, la telepresenza attraverso un PC, la corrispondenza dʼamorosi sensi, riprendendo la celebre espressione foscoliana, la quale poi cito in “Telepresenza”, in dittico a due voci con “Vita parallela” di Silvia Calzolari e che costituisce il manifesto poetico di tutto il progetto; non a caso ogni volume è aperto da questo dittico, corrispondenza dʼumano sentire per il tramite di un computer, “quel foglio di vetro impazzito”, che sempre e comunque “cʼispira”. È questa corrispondenza il motore, il fulcro di questi particolari dittici, tra le diverse voci di due poeti, i quali non cercano di imitarsi a vicenda, ma rimangono fedeli, ognuno al proprio modo di poetare. Ciononostante, il tema comune alle due poesie (punto di partenza per l’individuazione di un possibile dittico), unito alla corrispondenza sonora o emozionale, di significanza, come se le due liriche volessero instaurare una sorta di dialogo o, empaticamente, continuare in qualche modo il poetare della poesia divenuta “compagna”, fanno sì che si instauri una “dittica” corrispondenza/comunicazione, anche se in toni diversi, anche se in tempi diversi, dando così vita a un dittico a due voci».[3]

Il primo volume[4] è stato pubblicato il dieci settembre 2013 con Photocity Edizioni e così si è espressa la poetessa e critico letterario Cinzia Tianetti nella prefazione: «Il realizzato progetto antologico si compone di ventuno dittici, quadri in cui si profilano sullo scenario di un tema comune due poesie che si riscontrano in uno sposalizio che, nella loro pur sempre autonoma originalità, li rende rispondenti. È un’intuizione quella dell’ideatore fortemente moderna ma alla luce di un percorso formativo che da sempre partorisce l’artista nella storia, che non può allontanarlo da quel che è un processo che ha il senso radicato della filiazione».[5]

Il ventidue luglio 2014 avviavo il progetto di un secondo volume, a cui si aggiungeva la collaborazione del critico letterario e poeta Luciano Domenighini il quale redigeva le note critiche a ventinove dei trentatré dittici a due voci presenti. Così scrivo in un aforisma del 2014, che riporterò in esergo al volume: «Qual è lo spirito di un dittico poetico? Perché creare un dittico poetico a due voci? Per trovare corrispondenze di significanti nei versi di due poesie di due poeti, accomunate dal tema simile, per trovare affinità elettive nella loro poesia, oltre le distanze e il tempo; quando ciò accade, si riesce ad ascoltare la voce della poesia che, va oltre la voce del singolo poeta, ed è stupore e meraviglia.»

«[P]regevoli ricami sono tutti gli accostamenti che Marcuccio riesce a costruire poesia dopo poesia, da Silvia Calzolari, con omaggio indelebile a Giacomo Leopardi, diversi per stile ma accomunati dall’eco di Recanati, a […] Ciro Imperato, nel vigoroso impeto civile, a Grazia Finocchiaro, nelle segrete emozioni della memoria, a Rosalba Di Vona, vivificante nel tratto intimistico, […] ad Aldo Occhipinti, dalla suggestiva strofa cosmica, a Maria Rita Massetti, dall’ampio respiro corale, a […] Grazia Tagliente, negli occasionali frammenti di rime e nella ricca sequenza di metafore, [ad] Anna Alessandrino, fra il tempo inteso come sequenza e il sogno come elemento verginale, a Lorenzo Spurio, con la sua imprevedibile incisione musicale. […] Febbrile e singolare modernità di accostamenti, offerta dalla capacità immaginativa del palermitano, poeta dal multiforme profilo e dalla instancabile volontà di sperimentazione».[6]

Questo secondo volume[7] usciva il sette gennaio 2015 con TraccePerLameta Edizioni e nel maggio dello stesso anno ne avviavo il progetto di un terzo. Quaranta i dittici a due voci (alcuni proposti anche da altri autori partecipanti in “Altre dittiche corrispondenze”), con tre che chiudevano il Dipthycha 3: il poeta e critico letterario Aldo Occhipinti ne proponeva uno con l’eclettico Gabriele d’Annunzio e un altro con il profondissimo Eugenio Montale mentre il sottoscritto ne proponeva uno alla poetessa e critico letterario Lucia Bonanni, con il funambolico Aldo Palazzeschi. Scrivo ancora in un aforisma del 2015, che riporterò in esergo al volume: «In un dittico a due voci il poeta si apre al prossimo, anch’egli poeta, scegliendo che ai suoi versi facciano eco quelli di un altro poeta che trova in qualche modo affine, in cui individua corrispondenze sonore o emozionali, affinità elettive, corrispondenze di significanti». Nel marzo del 2016 mentre ero di ritorno da Milano, il poeta e critico letterario Lorenzo Spurio mi inviava in lettura un suo saggio breve sull’intero progetto “Dipthycha”: “Risonanze empatiche: l’esperienza del ‘dittico poetico’ di Emanuele Marcuccio”, un saggio che sceglierò come postfazione a Dipthycha 3. Ivi così si è espresso il critico: «Nessun dittico contenuto nei tre volumi è il frutto di una decisione preventiva, vale a dire nessun dittico è nato in maniera forzosa e richiesta, per i poeti, di elaborare una poesia che presentasse un determinato tema. È stato Marcuccio, ed è questo uno dei punti di forza del lavoro, leggendo poesie degli autori in rete, in sillogi personali, in antologie, a scovare di volta in volta possibili analogie, comunanze, parallelismi, elementi di rimando, concetti affini, punti rimarchevoli di contatto da permettere un accostamento di liriche di autori diversi. Nessun poeta in dittico, infatti, ha mai scelto l’autore con il quale avrebbe costruito il dittico poetico né a partire da una sua poesia alla quale, magari, era molto legato, ha intimato un altro poeta a scrivere qualcosa di simile. Il tutto, infatti, la scelta sapientissima ed oculata, la costruzione del dittico dopo un’analisi attenta delle componenti delle liriche e il loro potere evocativo, è stato compito di Marcuccio. Curatore che, proprio come un incantato pigmalione, è andato a scavare le trame più dense dei vari componimenti lirici, sezionandoli, assaporandoli, vivificandoli con l’ampiezza della sua capacità, completamente originale ed invidiabile, di saperli rapportare ad un altro. L’operazione svolta da Marcuccio, democratica e ampia, si inserisce in un procedimento letterario assai onesto e del quale è doveroso parlare dove la poesia cessa di essere manifestazione dell’animo del singolo, rappresentazione – sdolcinata o meno – di un vissuto personale, per interagire in maniera vibrante con altre poesie, costituendo un dialogico ricco e foriero di nuove essenze. La poesia da personale diventa fatto collettivo: gli autori in dittico sembrano quasi tenersi leggiadramente per mano, scanzonati, ed avanzare su un prato in maniera spensierata per poi unirsi agli altri in un girotondo, che poi è il girotondo dellʼAnima».[8] Questo terzo volume[9] usciva alla fine di aprile dello stesso anno con PoetiKanten Edizioni.

A questo punto non posso non ricordare con gratitudine e commozione che il dittico poetico a due voci nella X e XI edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”[10] (2021-23) è stato inserito come sottosezione di partecipazione nella sezione “Sperimentazioni poetiche e nuovi linguaggi”, insieme alla ‘corto poesia’ teorizzata da A. Barracato e D. Matranga e alla poesia dinanimista teorizzata da Z. Ferrante, su proposta dello stesso fondatore e presidente del Premio Lorenzo Spurio.[11] Un Premio sempre più prestigioso per il quale mi pregio di essere nella Giuria fin dalla prima edizione lanciata nel 2012. Dopodiché nell’ottobre del 2021 ho stilato le indicazioni complete per la pubblica lettura ed eventuale trasmissione di un dittico poetico a due voci: si dia lettura dei nomi dei due autori del dittico con relativo titolo delle due poesie prima della lettura del dittico stesso, si leggano poi i testi delle due poesie facendo seguire alla lettura della prima poesia una pausa più o meno lunga; alla fine si dia di nuovo lettura dei nomi dei due autori con relativo titolo delle due poesie. Nella lettura si prega di rispettare l’ordine di disposizione del dittico. Penso sia questo il miglior modo per leggere un dittico poetico a due voci rispettando lo spirito del progetto.

Così scrivo in un aforisma del novembre 2016, come possibile suggerimento per l’individuazione di un dittico a due voci: «Il tema comune alle due poesie dei due autori è solo il punto di partenza per l’individuazione di un dittico ‘a due voci’; è necessario che ci sia anche una corrispondenza sonora o emozionale, di significanza, una sorta di corrispondenza empatica, una analogia, una poetica affinità elettiva (una “dittica” corrispondenza/comunicazione) e soprattutto i due autori del dittico devono attenersi ai propri modi di fare poesia, senza cercare di imitarsi, per non avere come risultato qualcosa di simile a una poesia a quattro mani. Il fine non è l’imitazione dell’altra poesia qualora si voglia individuare un tale dittico bensì l’affinità elettiva, l’analogia, l’empatia poetica.»

Come naturale evoluzione del dittico a due voci, nell’agosto 2016 nasceva il trittico “a tre voci”, anche su suggerimento degli scrittori Lorenzo Spurio e Luigi Pio Carmina. Tuttavia, in futuro non è mia intenzione individuare, proporre polittici “a più voci”, in quanto, con la triade (tesi-antitesi-sintesi) si realizza la perfetta “trittica” corrispondenza, non è necessario andare oltre, si creerebbe solo una inutile dispersione del flusso poetico. Come per il dittico a due voci, anche per il trittico a tre voci, la prima poesia (o il suo inizio) va posta nella pagina di sinistra, questa volta per realizzare una rivisitazione poetica del trittico artistico.

A maggio 2016 avviavo il progetto di un quarto volume di “Dipthycha”, non solita serie antologica che non poteva fermarsi al terzo volume. Centoquarantacinque sono le poesie che lo compongono, divise tra cinquantatré dittici a due voci[12], di cui dieci (ciascuno introdotto da un saggio breve del critico Lucia Bonanni)[13] con autore classico[14], anche di lingua straniera e con testo a fronte in lingua originale, e tredici sono i trittici a tre voci.

«Il progetto che Emanuele Marcuccio ha ideato e messo in opera ha una valenza di notevole interesse, vuoi per la corposità del volume che raccoglie ben ventidue autori con numerose poesie, vuoi per l’operazione culturale di alto livello che vede pagina dopo pagina gli accostamenti con lo stesso Emanuele Marcuccio, il quale spende il suo operato con attenzione, e ancora con scrittori storicizzati e amati, esponenti della poesia internazionale selezionata. Un’opera quindi di perspicace plurivocità che abbraccia con sorpresa l’arcobaleno luminoso degli amori, delle passioni, delle illusioni, dei ricordi, degli sperdimenti panici, delle frequentazioni amicali, per una incalzante e melodiosa inquietudine che la sola poesia riesce a suscitare nel lettore. […] “Dittiche corrispondenze d’Autore” infine è la sezione forse più suggestiva di tutto il volume, un sorprendente guizzo di pagine da centellinare con attenzione per assaporarne in pieno la caratura estetica, non solo, ma anche la mordace e generosa memoria che i poeti accostati riescono a riaccendere nel lettore. […] I vari temi proposti, autore dopo autore, sfociano in eleganti affinità di relazioni empatiche e di affinità creative, facendo mostra di risoluzioni che appartengono allo scenario dell’immaginario come alla plasticità del perturbante. Si avvicendano in queste pagine Giacomo Leopardi e Emanuele Marcuccio, Giovanni Pascoli e Giorgia Catalano, Dino Campana e Lucia Bonanni, Antonia Pozzi e Lorenzo Spurio, Nelo Risi e Grazia Tagliente, Rainer Maria Rilke e Daniela Ferraro, Pablo Neruda e Daniela Ferraro, Wisława Szymborska e Grazia Tagliente, in un clamoroso esercizio di convergenze e contrasti, indagando con cautela tra i meandri della psiche e la originalità degli scritti».[15]

Così scrivo in un aforisma dell’aprile 2018, scelto come esergo al Dipthycha 4: «Nell’individuare dittici e trittici poetici secondo il “Dipthycha” – operazione mai semplice – è essenziale che ogni autore non imiti l’altro ma che in una sorta di continuum, seguendo il relativo tema rimanga fedele al proprio modo di fare poesia. Se no, dove sarebbe l’innovazione? Solo qualcosa di simile a una poesia a quattro mani e nulla più».

Come immagine di copertina, ho scelto un particolare di quella che riproduce un’opera pittorica della francese Henriette Browne (1829 – 1901), «Ragazza che scrive» (1870 – 1874), conservata al Victoria and Albert Museum di Londra. In questa immagine, a mio avviso, è rilevabile una certa continuità con quelle dei tre volumi precedenti, soprattutto il secondo e il terzo; vi si può leggere una scriba romantica e tanta meraviglia: l’ambiente esterno è povero ma intorno si percepisce tanta cultura e tanta meraviglia nello sguardo della giovane ragazza. La stessa può essere interpretata anche come allegoria dell’intero progetto “Dipthycha”. Questo quarto volume[16] usciva il ventitré dicembre 2022 con TraccePerLaMeta Edizioni che dal gennaio dello stesso anno ha trasferito la propria sede a Busto Arsizio (VA).

D’accordo con gli autori, il ricavo vendite dei precedenti tre volumi è devoluto ad AISM – Associazione Italiana Sclerosi Multipla. Mentre per il quarto volume è giusto invece che il pensiero vada ai nostri connazionali del centro Italia, colpiti dal terremoto nel 2016.

EMANUELE MARCUCCIO

(Aggiornato al 11 maggio 2024)


APPENDICE

Canoni distintivi

Canoni distintivi per la realizzazione di un dittico poetico a due voci del progetto di poesia “Dipthycha”, elaborati dal suo ideatore Emanuele Marcuccio, già pubblicati nel bando delle due suddette edizioni del Premio “L’arte in versi” e da seguire qualora si voglia inviare una propria proposta di dittico poetico a due voci alla attenzione del curatore, a info@proletteraturacultura.com.

I canoni distintivi (prevalentemente contenutistici) del dittico poetico a due voci sono:

  1. Presenza di un titolo per ciascuna delle due poesie
  2. Rispondenza di un tema comune alle due poesie
  3. Ciascuno dei due autori della rispettiva poesia formanti il dittico deve attenersi al proprio modo di fare poesia, senza in alcun modo cercare di imitarsi
  4. La seconda poesia del dittico sia in qualche modo una ideale risposta alla prima attraverso una sorta di continuum per analogie, corrispondenze sonore o emozionali, di significanza, di empatia, di poetica affinità elettiva

Ovviamente gli stessi, mutatis mutandis, possono essere seguiti per la realizzazione di un trittico poetico a tre voci.

Bibliografia e studi critici

A partire dal 2014, circa un anno dopo la pubblicazione del primo volume del progetto poetico “Dipthycha”, vari studi sono pubblicati in volume e online.

Bibliografia

AA.VV., Dipthycha. Anche questo foglio di vetro impazzito, c’ispira…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione di Cinzia Tianetti, Postfazione di Alessio Patti, Photocity Edizioni, Pozzuoli, 2013, pp. XII, 90.

AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione e note critiche di Luciano Domenighini, Postfazione di Antonio Spagnuolo, Quarta di copertina di Francesco Martillotto, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2015, pp. 184.

AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione di Michele Miano, con il saggio di Postfazione di Lorenzo Spurio “Risonanze empatiche, l’esperienza del ‘dittico poetico’ di Emanuele Marcuccio”, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 180.

AA.VV., Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione di Michela Zanarella, Postfazione di Antonio Spagnuolo, con saggi brevi e quarta di copertina di Lucia Bonanni, TraccePerLaMeta Edizioni, Busto Arsizio, 2022, pp. 310.

Studi

Bonanni, Lucia, “Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira. Una lettura”, proletteraturacultura.com/2015/09/dipthycha-2-di-emanuele-marcuccio-e-aa-vv-letto-e-commentato-da-lucia-bonanni.html, “Pro Letteratura e Cultura”, 2015.

Id., “Un dittico funambolico”, in AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 130-131.

Id., “Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia. Una lettura”, proletteraturacultura.com/2016/05/dipthycha-3-una-lettura-critica-a-cura-di-lucia-bonanni.html, “Pro Letteratura e Cultura”, 2016.

Id., “Angoscia, declino, ripiegamento e soffi di speranza nel ‘dittico poetico’ Leopardi-Marcuccio”, in AA.VV., Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…, TraccePerLaMeta Edizioni, Busto Arsizio, 2022, pp. 189-193.

Id., “Stagione invernale, sentimento della natura e tenere emozioni nel ‘dittico poetico’ Pascoli-Catalano”, in Op. cit., pp. 197-201.

Id., “Mistero, metamorfosi, silenzio e malinconia nel ‘dittico poetico’ Pascoli-Ferraro”, in Op. cit., pp. 205-206.

Id., “Da un’idea visiva e trasognata a un’ispirazione repentina e avvolgente: il ‘dittico poetico’ Campana-Bonanni”, in Op. cit., pp. 211-214.

Id., “Memoria, ansia di vivere e poetiche affinità elettive nel ‘dittico’ Risi-Tagliente”, in Op. cit., pp. 225-227.

Id., “Natura, atemporalità, inquietudine e malinconia nel ‘dittico poetico’ Rilke-Ferraro”, in Op. cit., pp. 231-235.

Id., “Sentimento della natura, emozioni, memorie e speranze nel ‘dittico poetico’ Neruda-Ferraro”, in Op. cit., pp. 239-241.

Id., “Amore cosmico, malinconia, nostalgia e rimpianto nel ‘dittico poetico’ Neruda-Tagliente”, in Op. cit., pp. 247-248.

Id., “La gioia di scrivere che si perpetua in uno ‘esistere incessante’ di scrittura gioiosa nel ‘dittico poetico’ Szymborska-Tagliente”, in Op. cit., pp. 255-257.

Domenighini, Luciano, Prefazione a AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2015, pp. 13-14.

Luzzio, Francesca, “Intervento critico a Palermo, Villa Trabia, 12-6-2016: Presentazione di Dipthycha 3”, proletteraturacultura.com/2016/06/palermo-villa-trabia-12-6-2016-presentazione-di-dipthycha-3-intervento-di-f-luzzio.html, “Pro Letteratura e Cultura”, 2016.

Martillotto, Francesco, Quarta di copertina a AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2015.

Miano, Michele, Prefazione a AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 9-11.

Occhipinti, Aldo, “Un dittico a caldo”, in Op. cit., pp. 117-119.

Id., “Un dittico a freddo”, in Op. cit., pp. 126-127.

Pardini, Nazario, “Recensione a Emanuele Marcuccio: Dipthycha. Antologia poetica”, in Id., Lettura di testi di autori contemporanei 1990 – 2013, The Writer Edizioni, Morano Principato, 2014, pp. 459-460.

Id., “Recensione a Emanuele Marcuccio e AA.VV.: Dipthycha 2”, in Id., Lettura di testi di autori contemporanei. Volume III 2013 – 2015, The Writer Edizioni, Morano Principato, 2019, pp. 879-881.

Patti, Alessio, Postfazione a AA.VV., Dipthycha. Anche questo foglio di vetro impazzito, c’ispira…, Photocity Edizioni, Pozzuoli, 2013, p. 51.

Spagnuolo, Antonio, Postfazione a AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2015, pp. 145-146.

Id., Postfazione a AA.VV., Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…, TraccePerLaMeta Edizioni, Busto Arsizio, 2022, pp. 265-267.

Spurio, Lorenzo, “Risonanze empatiche, lʼesperienza del ‘dittico poetico’ di Emanuele Marcuccio. Postfazione a AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 137-146.

Id., “Lasciate che mi perda nell’ombra: il dramma esistenziale di Antonia Pozzi nel ‘dittico poetico’ Pozzi-Spurio”, in AA.VV., Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…, TraccePerLaMeta Edizioni, Busto Arsizio, 2022, pp. 219-221.

Tianetti, Cinzia, Prefazione a AA.VV., Dipthycha. Anche questo foglio di vetro impazzito, c’ispira…, Photocity Edizioni, Pozzuoli, 2013, pp. VII-XI.

Zanarella, Michela, Prefazione a AA.VV., Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…, TraccePerLaMeta Edizioni, Busto Arsizio, 2022, pp. 17-19.


Scheda tecnica del progetto editoriale

Progetto (ideazione e cura): Emanuele Marcuccio

Introduzione a ogni Vol.: Emanuele Marcuccio

Original Cover Book I Vol: Emanuele Marcuccio

Prefazione I Vol: Cinzia Tianetti

Prefazione II Vol. e note critiche: Luciano Domenighini

Prefazione III Vol: Michele Miano

Prefazione IV Vol: Michela Zanarella

Postfazione I Vol: Alessio Patti

Postfazione II Vol: Antonio Spagnuolo

Postfazione III Vol: Lorenzo Spurio (saggio)

Postfazione IV Vol: Antonio Spagnuolo


Co-curatori

I Vol: Gioia Lomasti e Francesco Arena

Editing Cover Images I Vol: Francesco Arena

Editing Cover Images II Vol: Laura e Stefano Dalzini

Editing Cover Images III Vol: Patrizio Federico

Editing Cover Images IV Vol: Danilo Torraco e Stefano Dalzini

Pagina Facebook dedicata: https://www.facebook.com/Dipthycha  


I quarantadue autori presenti nei rispettivi quattro Volumi finora editi sono: Emanuele Marcuccio (presente in ogni volume), Silvia Calzolari (c.s.), Giorgia Catalano (c.s.), Maria Rita Massetti (c.s.), Lorenzo Spurio (c.s.), Donatella Calzari, Raffaella Amoruso, Monica Fantaci, Rosa Cassese, Rosalba Di Vona, Giovanna Nives Sinigaglia, Michela Tarquini, Francesco Arena, Ilaria Celestini, Ciro Imperato, Grazia Finocchiaro, Aldo Occhipinti, Marzia Carocci, Giusy Tolomeo, Grazia Tagliente, Daniela Ferraro, Antonino Natale, Anna Alessandrino, Teocleziano Degli Ugonotti, Antonella Monti, Luigi Pio Carmina, Lucia Bonanni, Maria Chiarello, Francesco Paolo Catanzaro, Maria Palumbo, Francesca Luzzio, Giorgio Milanese, Valentina Meloni, Luciano Domenighini, Igino Angeletti, Emilia Otello, Rosa Maria Chiarello, Anna De Filpo, Giorgia Spurio, Carla Maria Casula, Giusi Contrafatto, Anna Scarpetta.


Ai link di seguito è possibile leggere qualcuno dei tanti dittici a due voci e anche uno dei trittici a tre voci:

Dittico Calzolari-Marcuccio (Manifesto poetico del progetto presente in ogni volume)

Dittico Luzzio-Marcuccio (con trad. in dialetto aquilano di Lucia Bonanni, edito in Dipthycha 4)

Dittico Degli Ugonotti-Tolomeo (Edito in Dipthycha 3)

Dittico Massetti-Tolomeo (Edito in Dipthycha 2)

Trittico Bonanni-Spurio-Marcuccio (Edito in Dipthycha 4)


D’accordo con tutti gli autori presenti, l’intero ricavato delle vendite dei primi tre volumi è devoluto a scopo benefico ad AISM – Associazione Italiana Sclerosi Multipla. Mentre per il quarto volume, sempre d’accordo con gli autori, si è scelto il comitato pro-terremotati centro Italia di Ancescao APS.

Evidenza delle donazioni effettuate:

proletteraturacultura.com/2015/07/donato-ad-aism-il-ricavato-vendite-dell-opera-antologica-dipthycha-2.html

proletteraturacultura.com/2014/08/ricevuto-il-ricavato-delle-vendite-per-l-opera-antologica-dipthycha.html


[1] Il dittico poetico a due voci è una composizione da me teorizzata rivisitando il dittico poetico classico e definita dal sottoscritto come, “[u]na composizione di due poesie scritte da due diversi autori, indipendentemente, anche in tempi diversi, e accomunate dal medesimo tema in una sorta di corrispondenza empatica”. [N.d.A.]

[2] “Dipthycha” nasce anche come risposta alla pratica della poesia a quattro mani, che non reputo tale bensì solo un gioco poetico; nasce anche come risposta al cliché letterario riguardante la solitudine del poeta. [N.d.A.]

[3] Emanuele Marcuccio, in Introduzione a AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016, p. 7.

[4] AA.VV., Dipthycha. Anche questo foglio di vetro impazzito, c’ispira…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione di Cinzia Tianetti, Postfazione di Alessio Patti, Photocity, Pozzuoli, 2013, pp. XII, 90.

[5] Cinzia Tianetti, in Prefazione a Op. cit., p. VII.

[6] Antonio Spagnuolo, in Postfazione a AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, TraccePerLaMeta, Sesto Calende, 2015, pp. 145-46.

[7] AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione e note critiche di Luciano Domenighini, Postfazione di Antonio Spagnuolo, TraccePerLaMeta, Sesto Calende, 2015, pp. 184.

[8] Lorenzo Spurio, in Postfazione a AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, PoetiKanten, 2016, pp. 138-39.

[9] AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione di Michele Miano, con un saggio di Postfazione di Lorenzo Spurio, PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 180.

[10] premiodipoesialarteinversi.blogspot.com

[11] Riporto di seguito i canoni distintivi (prevalentemente contenutistici) del dittico poetico a due voci stilati secondo la mia teorizzazione e pubblicati nel bando per la partecipazione alla relativa sottosezione del Premio. Presenza di un titolo per ciascuna delle due poesie, rispondenza di un tema comune alle due poesie; ciascuno dei due autori della rispettiva poesia formanti il dittico deve attenersi al proprio modo di fare poesia, senza in alcun modo cercare di imitarsi. La seconda poesia del dittico deve essere in qualche modo un’ideale risposta alla prima attraverso una sorta di continuum per analogie, corrispondenze sonore o emozionali, di significanza, di empatia, di poetica affinità elettiva. Conclusasi la partecipazione alla XI edizione del Premio il 31 dicembre 2022, come da verbale di Giuria, è stato assegnato anche un terzo premio per la relativa sottosezione “Dittico poetico” ai poeti Eugenio Griffoni e Giulia Bologna con motivazione del sottoscritto. [N.d.A.]

[12] Tra i tanti è presente anche un dittico seguito dalla traduzione in dialetto aquilano della poetessa Lucia Bonanni.

[13] Tranne uno, quello con Antonia Pozzi, proposto e introdotto da Lorenzo Spurio.

[14] Dittici a due voci con poeti che hanno fatto la storia della letteratura dall’Ottocento a oggi: Giacomo Leopardi, Giovanni Pascoli, Dino Campana, Antonia Pozzi, Nelo Risi e, con testo a fronte in lingua originale, Rainer Maria Rilke, Pablo Neruda, Wisława Szymborska.

[15] Antonio Spagnuolo, in Postfazione a AA.VV., Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…, TraccePerLaMeta, Busto Arsizio, 2022, pp. 265-66.

[16] AA.VV., Op. cit., a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione di Michela Zanarella, con saggi brevi e quarta di copertina di Lucia Bonanni e Postfazione di Antonio Spagnuolo, TraccePerLaMeta, Busto Arsizio, 2022, pp. 310.

N.E. 02/2024 – Recensione a “Erotanasie”, poema a due voci scritto da Giannino Balbis ed Emanuela Mannino. A cura di Ornella Mallo

Il poema a due voci di Giannino Balbis ed Emanuela Mannino, ha un titolo altamente suggestivo: Erotanasie. Deriva dalla fusione di due sostantivi di origine greca: Eros, che significa amore, e Thanatos, che significa morte. Nella prefazione i due autori fanno presente che l’allusione al termine “Eutanasia” è voluta, anche se vaga. Vedremo poi perché. Intanto è immediato il richiamo a Freud e alla teoria da lui esposta nel saggio Al di là del principio di piacere, incentrato sui temi dell’Eros e del Thanatos, ossia sulla “pulsione di vita” e sulla “pulsione di morte” che, pur opposte e contrastanti tra loro, presiedono alle dinamiche comportamentali di tutti gli individui. In questo testo il padre della psicoanalisi moderna si ispira a Empedocle e al conflitto psicologico in termini dualistici, preconizzato dal filosofo greco, tra la forza aggregante della Philia, ossia dell’Amore, e la forza disgregante del Neikos, ossia dell’Odio, che produce distruzione e morte.
Per cui, se da una parte Eros ci spinge verso l’Altro, e ci porta a creare con lui un’unità simbiotica, dall’altra Thanatos suscita in noi atteggiamenti respingenti e demolitivi, per cui tendiamo ad allontanarci  riducendo in macerie la relazione. Non solo. Per Freud Thanatos, nel suo significato primigenio di morte, esprime anche il desiderio di concludere la sofferenza della vita e tornare al riposo, alla tomba.

Eros e Thanatos sono la scaturigine degli “aporemi del cuore” di cui parlano Abbagli Insonni e Costanza, i due protagonisti dell’opera. La morte aleggia per tutto il poema: viene individuata come evento tranciante della relazione amorosa che i due personaggi hanno avuto in vita, e da cui è nato un figlio, dal nome emblematico di “Astrolabio”. Emblematico non solo per il suo significato di carpitore di stelle, [da astron, stella, e lab, radice del verbo greco lambano, che significa acchiappare, prendere], indicativo della funzione tutelare della relazione da lui assolta mentre i protagonisti erano in vita: “Astrolabio / piange lontano /[…] ed io / inerme madre / l’abbraccio forte”, scrive Costanza; ma anche per essere il nome proprio del figlio di Abelardo ed Eloisa, passati alla storia per la forza dirompente della loro passione dagli esiti infausti.

Balbis e Mannino, nel loro poema, non solo li citano espressamente, ma continuamente fanno riferimento ad altre figure storiche, che si sono distinte per i loro amori tanto intensi quanto infelici: Isabella di Morra e Diego Sandoval, Susette Gontard e Hoderlin, Giulietta e Romeo, Orfeo ed Euridice, la Baronessa di Carini ed Emily Dickinson, giusto per fare qualche esempio. Tutti amanti che, per ragioni molteplici e diverse, non hanno potuto realizzare sulla terra il loro ideale di amore. La domanda che sembrerebbero allora rivolgere gli autori del poema a sé stessi e al lettore è: se in vita è difficilissimo, se non addirittura impossibile, realizzare un progetto amoroso, dopo la morte sarà possibile?

Il quesito su cui si impernia tutta l’opera è preannunciato nella prefazione scritta dai due poeti. In essa spiegano che i protagonisti dopo la morte raggiungono l’Eterno, e da lì si scrivono in versi. Perché il legame tra i due, non è solo dato dall’Eros che intensamente persiste, seppure come ideale, e dal figlio Astrolabio, “monco di albero padre”; il legame risiede nella Poesia, valore indiscusso grazie al quale il loro amore sopravvive alla morte: “io sposo a te di versi / […] tu sposa mia di rime”, asserisce Abbagli Insonni. Se tutto viene meno, restano in piedi soltanto i versi, che non saranno erosi dal tempo. Sono l’emblema dell’Eterno, limbo del “tutto-nulla” in cui “cerca riposo / – fuggendo immaginando – /” l’infelicità dei due protagonisti.

Abbagli Insonni, nell’incipit del poema, parla di una “nebbia di tempo” che li “avvolge e non dirada.”  Scriveva Joe Bousquet: “La morte è la solitudine delle persone amate, / questa nebbia intorno a loro che nessuna / tenera parola può attraversare. / La morte è il dolore e la disperazione / nelle stesse parole che furono l’ebbrezza / della felicità. La morte sono i pianti che / sgorgano ascoltando una / parola che voleva dire amore.”

Leggendo più approfonditamente l’opera, emerge come la morte fisica non abbia che conclamato quella morte spirituale che era stata inferta al rapporto dai due amanti mentre erano in vita. I versi infatti sono pervasi dallo struggimento che i protagonisti provano per non essere stati capaci di difendere il loro amore, e in questo si sentono vicini a tutti gli amanti della storia, accomunati dalla stessa sorte. Scrive Costanza ad Abbagli Insonni: “quanto dolore salmastro / tra gli amanti ignoti / quanta malinconia sparsa / nell’Eterno dei perché recisi dal silenzio.” E in altri versi afferma: “Sì, amato mio, / forse avremmo dovuto lottare / contro i cinici cieli aggrottati / e le comari nuvole accigliate / contro ai venti negri di invidia, / e le lingue nemiche / persino le malelingue amiche.” Abbagli Insonni le fa eco: “È questa allora / la pena degli amanti maledetti, / colpevoli non già d’amarsi a scandalo / dei falsi moralisti, / ma di scoprirsi inetti alla difesa / del proprio santo amore.” È il rimprovero che più frequentemente muovono a sé stessi gli amanti quando elaborano il lutto per la fine del loro amore: “Il mio amore di te non si ama”, annotava Kafka nei suoi diari, citazione quanto mai espressiva di quel Thanatos latente che uccide l’Eros.

L’Eros pervade il poema nella stessa misura in cui lo pervade il Thanatos, e si esplica in due sentimenti fortemente presenti nelle epistole che si scambiano i due protagonisti: il sentimento dell’Assenza, da cui scaturisce il desiderio di rivedersi per insufflare vita in sé stessi e nel loro amore; e quello dell’Attesa, provato nella sua urgenza carnale da Abbagli Insonni, che inizialmente alimenta la speranza di possedere nuovamente la sua amata, mentre Costanza appare subito mistica nel suo dire, e si mostra rassegnata alla definitività del loro addio.

A proposito del tormento inflitto dall’Assenza, scrive Abbagli Insonni: “È questa / la nostra dannazione? / Questa nebbia / che della tua presenza… (sei qui, sento / di te ogni palpito, vedo il tuo corpo / fremere, e le tue labbra aprirsi, / vedo i tuoi occhi ridere, / respiro il tuo profumo) / che della tua presenza / fa disperata assenza?” Sull’Assenza, detta “Erwartung”, in “Frammenti di un discorso amoroso” Roland Barthes scriveva: “Il discorso dell’Assenza è un testo con due ideogrammi: vi sono le braccia levate del Desiderio, e vi sono le braccia tese del Bisogno”. Quello di Abbagli Insonni è l’Hímeros greco, ossia il desiderio pressante della carne; quello di Costanza è il Pothos, ossia il bisogno spirituale dell’amato lontano, misto al senso di dolorosa rassegnazione all’impossibilità di un ricongiungimento. Ragion per cui lei scrive: “Aspettami, senza aspettare – / come s’aspetta il / suggello dell’onda / sull’orme del dipinto desìo / radice di china di mare, dall’Eterno mondo / dei ritorni di Chi / s’è appartenuto / oltre i navigli delle ombre.” E aggiunge: “Va’, amatissimo mio, va’ / lasciami qui / a riprendermi le verità / taciute al mio seno: / donna senz’uomo donna senz’Eterno / donna / in attimi d’Inferno / donna senza – / donna diamante / amante di insondabili vuoti / che nel vuoto / riempie già.”

Si conferma nella morte il senso di solitudine già provato in vita per il mancato appagamento dei propri bisogni. Ed emerge la risposta al quesito circa la possibilità di una realizzazione dell’amore dopo la morte: venendo meno la fisicità, l’amore non potrà essere vissuto concretamente. I due amanti restano lontani. Scrive Abbagli Insonni: “noi, amata mia, / non fummo […] servi del dio Amore ma servitori al mondo / che volle giudicarci… / Per questo ora ci amiamo / separati dal mare / che non fu mai solcato. / E solamente in sogno / possiamo l’uno all’altra ritornare.”

Gli ultimi versi del poema spiegano il richiamo all’eutanasia, anticipato dai poeti nella prefazione. Scrive Costanza: “Leggero appare l’abbandono / e soave il canto di nuovo amore.” L’accettazione dell’impossibilità di riaversi rende dolce la morte del loro amore fisico. Resta eterno l’amore spirituale, che non è che un anelito mistico, intriso del ricordo idealizzato dell’altro. Ragion per cui vale la pena concludere le nostre riflessioni su Erotanasie con i versi di Emily Dickinson, la cui vita è “presa in prestito” dai due amanti come esempio di amore irrealizzato, e che esplicitano il senso essenziale di Erotanasie: “Chi è amato non conosce morte, / perché l’amore è immortalità, / o meglio è sostanza divina. / Chi ama non conosce morte, / perché l’amore fa rinascere la vita / nella divinità.”

Da un punto di vista squisitamente formale, il poema risponde a criteri classici, il lessico è molto elegante e ricercato. Le due parti, quella di Abbagli Insonni e quella di Costanza, sono perfettamente integrate. I versi sono di struggente bellezza e intensità nella resa del dolore per il distacco, e della malinconica accettazione dell’invivibilità dell’amore. Da leggere.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

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