Un volume su poesie e racconti delle Native Americane è già di per sé un balsamo. Ai giorni nostri, a quelli passati e a quelli futuri. E mi sento di dire che sia un dato oggettivo. O meglio, rende oggettivo ciò che prima era “solo” soggettivo. Tante liriche, molti punti di vista, ma un solo obiettivo, fare chiarezza. E per farlo, non v’è dubbio, bisogna sapere in che direzione andare.
Nonostante il volume sia corposo, oltre quattrocento pagine compreso di americano a sinistra e traduzione a destra, è altrettanto agile e con quella freschezza, chiamiamola pure birboneria, e al contempo saggezza tipica dei fanciulli. Se solo li ascoltassimo.
Figlie di Pocahontas è opera di memoria, di coraggio e di sapore. Partiamo dall’ultimo, inteso come radici, emozioni capaci di animarci ogni qualvolta. Ossia il naso. Sì, l’olfatto che nei testi di un certo rilievo – di qualsiasi ambito – non dovrebbe mai mancare, per diversi motivi. Primo tra tutti, il confronto. Che spesso è con noi stessi. O meglio, d’accordo con noi, ma guardando, vedendo e soprattutto ascoltando gli altri, steli indomiti al vento e al contempo assai piegabili da quanto c’è di materiale in questo pianeta leggermente schiacciato ai poli. Ed è qui, come si diceva, che il soggettivo diventa oggettivo e quindi va oltre, diventa di tutti e per tutti. Universale.
Figlie di Pocahontas è memoria. Sì, certo. Le poesie, al pari degli eventi e delle vicissitudini di chi le ha scritte devono andare oltre, valicare confini e poggiare soffici come seta su competenze trasversali, ossia capaci di attraversare più ambiti. Per quello sono per tutti. E allora poco importa se in una poesia di Paula Gunn Allen si parla di scala portatrice di pioggia che per noi bipedi moderni può significare poco o addirittura nulla (la nota chiarisce che è un tappeto cerimoniale per invocare la pioggia, con disegni a forma di scala a indicare dei monti circostanti) e per altri anzi tenta di distogliere da quanto stiamo leggendo. Perché giudichiamo. E non conoscendo, di sovente lo facciamo storcendo subito il naso.

Le opere de le Figlie di Pocahontas sono coraggiose anche per questo. Libere di respirare freschezza, gioiose di progredire nella tradizione e aprire a refoli di universalità, che poi vedi sopra è quello che si richiede a una poesia, se proprio desideriamo darle una cornice. Ma qui non si parla di ingabbiare, bensì c’è la volontà da parte delle autrici di disporre e predisporre all’umiltà. A una sensata ragionevolezza e perché no ambizione di prendere in mano se stesse e di colpire con piccoli semini di consapevolezza che i piccoli gesti, che loro stesse intese come donne e per di più di una popolazione considerata arcaica e dunque scomparsa o non statisticamente valida, non sono figlie di un dio minore. Non intrecciano solo perline nei fili, dunque.
Primo, tra i Nativi americani, gli esseri umani esistono in comunione con tutte le cose viventi (ciascuna delle quali sappiamo essere intelligente, cosciente e auto-cosciente), e onorare la giustezza di quelle relazioni è una delle nostre posizioni estetiche. Secondo, agli occhi dell’America, noi (come tutti gli animali selvatici) siamo estinti o lo saremo presto. Le donne native devono lottare contro un terzo fatto, più difficile da scorgere o da enunciare: se nella mente pubblica e privata dell’America gli indiani come gruppo sono invisibili, le donne indiane non esistono proprio (Paula Gunn Allen).
Non v’è dubbio che ai più può sembrare vi sia della polemica in tutto ciò. Al contrario, ancora una volta, si intravede coraggio, azzardo, eroismo. Lo ripeto e dunque non è più un azzardo: eroismo. Chi cerca di uscire dal guscio e di non trincerarsi dietro scuse è di per sé stoico.
Quello che sono è il titolo di un testo di Luci Tapahonso. Si parla di ascolto, di confronto e di preghiere. Di crederci, insomma. Ma di farlo in modalità attiva. Prima di tutti, ossia il punto di partenza, servendo un inchino verso chi ci si presenta come interlocutore momentaneo. Senza giudizio su chi esso sia o cosa pensi in ogni ambito, dal più comune a quello che più disparato non si può. Il testo della Tapahonso ha anche un arco temporale ben definito, perché passa dal millenovecentotrentacinque al millenovecentottantasette. E chi lo sa se intende sottolineare che nel mondo indiano non si tiene conto della concezione del tempo dei bianchi. Il tempo indiano è un’esperienza collettiva, pare intangibile. Ben visibili invece sono le sue dimensioni, ossia la vita di qualcuno o di un popolo. Ma senza la pretesa di insegnare. Che ne dite di ripeterlo? Ma senza pretendere di improntare nulla a qualcuno.
“… di stelle che navigano un loro universo” è un verso di Janice Gould nella sua lirica Merli. Anche qui nessun pregiudizio, solo ascolto. Ed esso può avvenire solo se non parliamo, spesso interrompendo chi già lo sta facendo prima e, molto probabilmente, meglio di noi. La lirica è anche un parallelo con quanto due innamorati stanno provando, perché il componimento termina: “… sento come ti attraversa”. Consapevolezza che ognuno ha le proprie attitudini ma siamo tutti uniti e ogni correlazione tra noi esseri viventi è possibile e dunque raggiungibile, persino misurabile. Visione a trecentosessanta gradi di quanto si è e di quanto si può fare. E di quanto c’è sempre da fare, ogni giorno, a costruire il proprio cammino e quello comune: “Queste cosa hanno memoria, sapete. Io ho memoria” decanta Joy Haryo nella lirica New Orleans. Dimostrazione che non ci sono, non devono esserci giri di parole o vendere un qualcosa di cui non si ha competenza. La verità, nelle esperienze dirette. E che possono non essere piacevoli, a volte per definizione, ma forgiano.
“Questo distacco si fa duro” è il finale della lirica Distacco di Charlotte de Clue. Il cui primo verso quasi a fungere da sottotitolo è Le Donne al Lavoro, giusto per fare intendere quanta modernità si possa respirare ne le Figlie di Pocahontas. A pensarci bene, a proposito di maiuscole: Consapevolezza, Visione e Dimostrazione. C. V. D. Come volevasi dimostrare.
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
