Sono andata al mio funerale
sul cieco viale dei cipressi,
sono stata il silenzioso vento
nella cruna di una marcia che non sento.
Nessuno poteva prendermi per mano:
ero il tempo che non si può fermare
ero la luce che non si può guardare.
Non c’era cassa col mio corpo dentro
né vessillo inalberato;
soltanto un nome, pronunciato
sulla fossa prima di essere scordato.
Al mio funerale, nuda, sono andata
senza arringa, ne breviario
e un’attitidu[1] insolente ho intonato.
Del rumore della morte neanche l’eco
riusciva a imprigionarne la paura…
lei, muta, sulle pupille di una figlia desolata,
il mio sorriso presagiva nella mietitura.
[1] In sardo: lamento funebre, pianto rituale consistente in lunghi lamenti cantati dalle attitadoras (le prefiche).
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
