Nelle notti d’estate quasi m’illudo che questo cielo non si stacchi cadendo sulle nostre povere teste inermi che questa terra non ci tradisca più (24).
Il 6 aprile 2009 un potente terremoto colpì l’Aquila e la sua zona limitrofe. Nella tremenda scossa, che avvenne nel cuore della notte, molti edifici non ressero all’impeto della natura e caddero, si sfasciarono come strutture di cartapesta. Moltissimi i morti e i feriti; come non ricordare le giovani vittime della Casa dello Studente? La morte e il terrore si diffusero a macchia di leopardo tra gli aquilani e gli abruzzesi tutti che, anche nei giorni successivi, furono sottoposti ad altre scosse telluriche seppur di minore entità.
Quando si vede la morte con i propri occhi ci si domanda due cose. La prima è perché siamo stati risparmiati e la seconda è perché dobbiamo assistere alla morte degli altri. Chiaramente nessuna delle due domande può trovare una risposta, neppure se decidiamo di abbracciare una particolare religione. La Natura esiste ed è buona con l’uomo perché gli dà tutto: il calore, necessario per vivere, l’acqua, la fonte primaria di vita, il cibo e tutto il resto, ma essa sa anche essere cattiva come dimostrano appunto le calamità naturali. Ci si potrebbe chiedere allora perché ci sia costituzionalmente nella figura della Natura questa paradossale antinomia di bontà-cattiveria, dono-privazione, gioia-terrore, così come già molti anni fa si era domandato Leopardi. Sappiamo, però, che spesso i cataclismi e le cosiddette calamità naturali in fondo proprio “naturali” non sono o per lo meno non sono solo tali, nel senso che la sconsiderata azione umana dell’uomo sul territorio è con-causa determinante se non addirittura causa propulsiva di simili tragedie. Si pensi al disboscamento volto a una più ampia edificazione, alla cementificazione e a tutte le altre sfide che l’uomo pone di continuo alla natura, offendendola, sfruttandola e seviziandola. La Natura, poi, essendo un immenso vivente, vive la sua vita fatta di spostamenti tellurici tra placche, eruzioni vulcaniche, flussi oceanici e tanto altro: movimenti che sono naturali e che non possono essere né governati né pronosticati, sebbene una branca della sismologia crede di sì salvo non aver mai aiutato seriamente in questo senso. Ed ecco dunque che se una frana si presenta è causa dell’uomo che ha sfruttato quel territorio senza metterlo in sicurezza, ecco dunque che se la lava finisce per raggiungere delle abitazioni è causa dell’uomo che ha edificato (e speculato) in territori che, invece, sarebbero dovuti rimanere incontaminati proprio in virtù della vicinanza dal vulcano, ecco infine che se una casa, o una città non sopporta le spinte che vengono dalla Terra che l’uomo può/potrebbe avere delle responsabilità che non sono seconde a nessuno (si veda appunto il processo contro gli ingegneri della Casa dello Studente dell’Aquila).
E’ ovvio, però, che sia la Natura, la Terra, ad essere presa come capro espiatorio delle nostre malefatte perché essa è il mezzo con il quale si manifesta la tragedia che poteva essere evitata. E’ ciò che accade nelle liriche di Alessandra Prospero contenute in P.S. Post sisma. La poetessa, aquilana, ha visto con i propri occhi la sua città cadere come fosse di cartapesta, ha subito il trauma delle scosse e la violenza delle immagini che si sono prospettate dopo l’evento sismico. Tutta la silloge ha come fonte concettuale proprio l’esperienza traumatica e dolorosa del terremoto dell’Aquila; il libro si divide in due parti, una prima parte dove è la distruzione, il terrore e l’angoscia opprimente a dominare, dal titolo “Il dramma” e una seconda parte scritta con coscienza di causa, a posteriori dal tragico evento, con la consapevolezza della grande fortuna spettata a lei e ai suoi cari dal titolo “La speranza”. Andiamo per gradi.
La lirica che apre la raccolta è un pugno allo stomaco. Non esistono trasfigurazioni o ispirazioni a distanza, ma ciò che Alessandra Prospero mette sulla carta è la cronaca di cui lei fu spettatrice di quella atroce calamità. In quel momento è come se la vita si spaccasse e il tempo si bloccasse di colpo trasmettendo a tutti una sospensione invivibile e preoccupante (“quando un buio senza tempo/ diviene eterno”, 11). L’eternità a cui la poetessa si riferisce può avere una correlazione già di per sé all’idea di morte che la stessa può aver configurato nella sua mente nel momento in cui ha realizzato la gravità del momento e la difficoltà di salvarsi. C’è una fuga: si fugge dalla casa in potenziale pericolo di crollo, si fugge dalla notte, si fugge da se stessi per cercare una via di salvezza dove ci si auspica di trovare anche i propri cari (“ e fuggi verso la notte”, 11). Ma il dramma è assillante, la Natura mostra un temperamento sadico e ossessivo non permettendo una tregua, una calma da quella violenza: “il salto continuo/ il tremito perenne” (11). Tutto d’intorno è desolazione, paura, appello d’aiuto e preghiera accorata affinché la Natura smetta di “tradire” l’uomo.
C’è la consapevolezza, però, nella prima lirica della fortuna (o del destino positivo) o piuttosto della coincidenza che ci si è salvati. Si è attori della tragedia, è vero, ma non si è vittime e questo intensifica ancor di più l’attaccamento dell’uomo nei confronti della vita: “Respiro ancora,/ vedo ancora/ vivo ancora,/ palpitante” (11). Significativa è la reiterazione di “ancora” che sottolinea un certo stupore nell’esserci nel presente dopo quanto di drammatico accaduto.
I protagonisti della tragedia sono tutti: i bambini, gli adulti, gli anziani, gli animali, le case, la città e le coscienze della gente. Solo il bambino, inconsapevole di quanto è realmente accaduto, può conservare ancora un sorriso sulle sue labbra (“Il mio bambino biondo ride”, 12), mentre il luogo dove è accaduto il fatto è definito “una città fantasma/ gremita di spettri”, 12).
E’ la Morte la vera protagonista del dramma che si insidia nel privato delle famiglie, di soppiatto, traditrice e infingarda, a portare via corpi con una famelica ingordigia: “Ne potevo avvertire il fiato,/ ne ho udito i passi pesanti,/ potevo sentirla dietro di me/ senza per questo voltarmi”, 12). La Morte è un’onnipresenza concreta in quell’ambiente, temuta e aborrita, seppur invisibile.
Si domanda alla Terra il perché di quanto accaduto. Ci si appella di smettere, perché niente del genere può essere sostenuto ancora. Si prega, con poca convinzione, si piange, e si ringrazia, non senza stupore, un qualcuno che ha deciso di risparmiarli: “La nostra preghiera/ è un lamento,/ una paura,/ un ringraziamento” (13).
E così come si diceva poc’anzi cambia la fenomenologia del tempo, da categoria logica e da determinante dell’essere esso diventa vago, indistinto, non-catalogabile né definibile: il buio può esserci anche di giorno perché è il buio delle coscienze e del tormento; il giorno e la luce rimangono esistenze flebili che sembrano essere offuscate dal buio. Ci si attacca al passato, al ricordo, al vissuto (“E ieri diviene per sempre”, 14) anche se le case che costudiscono le memorie sono venute giù, distrutte e ora, più che essere custodi dell’intimo sono diventate rovine alla mercé di tutti (“La mia casa divenne/ un ossario di speranze”, p. 15). Il presente è un tempo senza-tempo, incalcolabile, sospeso, che viene vissuto nel tormento, nella paura che ciò che è accaduto, riaccada, che il Mostro tentacolare torni a reclamare altre vite (“E l’oggi non è mai domani”, 14).
E’ duro il commento della poetessa nei confronti di quanto accaduto e non potrebbe essere diversamente: rabbia e dolore si cementano in questo cuore scalfito dalla violenza degli accadimenti. Impossibile capire perché certe cose inutili e dolorose accadano: “Troppo presto vanno via le carezze, i sorrisi/ e i gesti accoglienti/ senza un perché umano/ che ci motivi questo abbandono” (16). La disperazione è tale che la poetessa nella lirica “Delusa” non può che abbandonarsi a una considerazione che dimostra lo sconforto nel credere che un domani potrà esserci: “Morta/ giace in un angolo/ la mia voglia di ricominciare” (18).
La seconda parte della silloge apre alla speranza e permette di intravedere la luce. Dopo aver conosciuto la Morte da vicino e dopo aver superato una grande prova con la propria coscienza, la poetessa è in grado di intravedere un futuro nella figura del bambino a cui è dedicata la lirica “Figlio” nella quale in chiusura scrive: “Figlio,/ di te vivo,/ gemma viva nella polvere,/ nenia di paradiso” (30). L’immagine del bambino, che sta ad indicare il futuro, la nuova generazione che cresce e che poi sostituirà quella precedente, è necessaria alla donna per ricevere un influsso positivo, “di te vivo”, del quale alimentarsi proprio come una gemma che, pur nella polvere, riesce a sbocciare a portare la vita. Non è un caso che in copertina ci sia un muro spaccato di una casa dove si vede la muratura e vicino un ramo di un arbusto con alcune foglie, simbolo della vita che incessante torna a rioccupare anche i territori morti come la poetessa aveva già consacrato in un’altra lirica della prima sezione: “L’edera freme e resiste strenua/ ai lati del mio cancello,/ a proteggere i miei ricordi/ come le bocche di Bonifacio” (15).
Un libro da leggere con il cuore e da fare proprio, dando il giusto peso a ciascuna parola, a ogni aggettivo e colore che Alessandra mette sulla carta. Non è una poesia da interpretare, Alessandra già fornisce tutto nei suoi versi lunghi, come una cronaca rimembrata e allo stesso tempo sempre attuale.
In questo libro c’è l’attaccamento per la propria terra e lo sgomento di chi vede i suoi simili sopraffatti dall’Ignoto.
In questo libro c’è l’amore, l’orgoglio, la speranza.
In questo libro c’è tutto.
Jesi, 22-10-2013
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