“La Grande Madre e gli dèi del cielo”, saggio antropologico di Cinzia Baldazzi

Saggio di Cinzia Baldazzi[1]

 

     Nel 1938 Carl Gustav Jung, nello studio Gli aspetti psicologici dell’archetipo della Madre, così la definiva:

La magica autorità del femminile, la saggezza e l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita; l’istinto o l’impulso soccorrevole.

     Nelle rappresentazioni di epoca antichissima troviamo l’immagine, sotto forma di piccole statue, di un ente supremo definito Grande Madre da archeologi, etnologi, storici della religione. Racconta Umberto Galimberti:

Nell’area mediterranea ne sono state reperite cinquantacinque contro le cinque maschili, atipiche e malfatte, che rappresentano giovanetti in tenera età. Ciò lascia supporre che la divinità maschile subentri solo in un secondo momento e che il rango della divinità-figlio sia stato conferito solo successivamente dalla divinità madre.

     Si tratta di una deità femminile primordiale, còlta in molteplici forme e ospitata in un’ampia gamma di popoli, civiltà e culture sparsi nel mondo, dalle comunità di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico ai clan dedicati all’agricoltura e alla pastorizia del Neolitico. La Grande Madre è alla fonte di un circuito ininterrotto di nascita-sviluppo-maturità-declino-morte-rigenerazione, tipico della vita umana quanto di cicli naturali e cosmici. Il carattere femmineo appare quindi necessario elemento mediatore fra il terreno e il trascendentale. L’uomo, il principio maschile, sembra essere completamente escluso dall’immaginario primitivo, probabilmente in quanto il meccanismo della fecondazione non era ancora chiaro alla coscienza.

    1 Le sembianze – visibili nella celebre Venere steatopigia di Willendorf – pongono in rilievo il simbolismo corrispondente a un “vaso pieno”, ottenuto enfatizzando gli attributi peculiari dell’icona muliebre e penalizzandone altri: mammelle e ventre spesso composte in un grappolo unitario, bacino dilatato, testa senza viso, femore e cosce sottili e sproporzionate, piedi esili del tutto insufficienti a reggere il corpo enorme, infine braccia e piedi appena accennati.

     Riguardo l’asse temporale, la prevalenza di un simile personaggio occupa un periodo esteso che, almeno in Europa, copre gli anni dal 35.000 a.C. al 3.000 a.C. circa; in talune aree del Mediterraneo (tra cui Creta) permane sino al II millennio a.C. inoltrato. La celebrazione della Grande Madre attesterebbe quindi l’esistenza di tribù matrifocali nel Paleolitico e nel Neolitico. Prosegue Galimberti:

     La mancanza di agilità e di forma fa assumere alla Grande Madre una postura sedentaria in stretta aderenza alla terra in cui spesso è incorporata. Anche quando sta in piedi, il suo centro di gravità la spinge verso il basso, verso la terra che, nella sua immobilità, è la sede del genere umano. Seduta, poi, la grande Madre è la dèa troneggiante, quindi la forma originaria del trono stesso.

     Grazie all’esplosione demografica causata dall’introduzione dell’agricoltura e alla relativa crescita di culture ramificate, le “competenze” proprie della gloriosa antenata si scindono e si diversificano in svariate icone muliebri. La Somma Divinità, pertanto, pur seguitando ad esistere accompagnata da liturgie specifiche, si moltiplica in personificazioni distinte per sovrintendere all’amore sensuale (Ishtar-Astarte-Afrodite-Venere), alla fecondità delle donne (Ecate triforme), alla fertilità dei campi (Demetra-Cerere-Persefone-Proserpina), alla caccia (Kubaba-Cibele-Artemide-Diana). Poiché il ciclo naturale delle messi implica le tappe di morte e rinascita del seme, la Grande Madre si connette anche a cerimonie legate alla Luna: tra i riti arcaici riservati alle donne, i più remoti sono quelli di Mater Matuta e della Bona Dea.

     L’origine matrifocale dei clan rurali è stata approfondita dalla studiosa lituana Marija Gimbutas, ponendo enfasi sul ruolo femminile sociale della donna in epoca Neolitica.  Ciò sarà evidente, in seguito, nell’appellativo di “figlio della dèa” attribuito a talune divinità (come Διόνυσος-Diònisos) vincolate alla terra. Un nesso determinante nello sviluppo delle religioni ancestrali è infatti il legame autoritario, il rapporto iniziatico, tra la madre archetipica e il suo compagno, caratterizzato dall’essere minore di lei – per età e poteri – e dal ricoprire spesso il ruolo di giovane amante, assai simile a un figliolo (si veda in proposito la coppia Cibele-Attis).

     Nelle feste e nei misteri per evocare la prosperità, onorare la Madre indica il procedere delle stagioni, insieme alla domanda universale dell’essere umano di poter rivivere al pari dei semi dal terreno. Il processo di rigenerazione la rappresenta con fattezze di rana, pesce, porcospino o clessidra, con doppi triangoli e pietre a spigolo adeguati a evocare una stilizzazione combinata con rami e germogli.

     Accanto al vaso primigenio – in analogo al grembo materno – e alla forza ctonia (da khtòn, Terra), la mitologia le conferisce anche la veste di albero della vita: la genitrice trae alimento da salde radici piantate nel suolo, innalza fronde e foglie per delineare un’ombra protettiva nella quale il nucleo vivente trova rifugio. Significativa la parentela con il vocabolo spagnolo madera (“legname”), affine a «madre», «materia», a cui pure risale l’aggettivo greco madaròs (“umido”, “inzuppato”), il latino madidus (“bagnato”). Spiega ancora Galimberti:

In Egitto il pilastro Ded, conficcato nel monte, è il «legno della vita da cui nascono gli dèi», fino alla più recente simbologia giudaico-cristiana dove il figlio della Vergine nasce nella mangiatoia di legno e muore sulla croce «albero della vita e della morte». La materia lignea, infatti, oltre che madre della vita è anche madre della morte, è il sarcofago divoratore di carne, la cassa che racchiude nella forma dell’albero-pilastro Osiride nel suo legno.

     Ciò vuol dire che tutti i simboli collegati alla Grande Madre, o comunque vicini alle proprietà “materne”, sono di fatto contraddistinti da una forte ambivalenza, da una duplice natura, positiva e negativa: la “madre amorosa” e la “madre terribile”.

     Secondo Carl Gustav Jung, il creatore della “psicologia del profondo”, tutti siamo collegati con numerosi archetipi, ovvero con contenuti primordiali e universali presenti nell’inconscio collettivo: la Grande Madre è sicuramente una delle “immagini” con cui forse più spesso e profondamente entriamo in relazione. Rimane attuale l’interrogativo posto da Jung, vale a dire se tale figura, potenza dell’Inconscio, sia piuttosto salvatrice e nutrice, che non deleteria e distruttiva. Sono quindi altrettanto importanti le istanze negative di cui è portatrice:

Ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l’abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile.

     La psicologa Anna Maria Cebrelli ha così dettagliato questo aspetto:

In quanto espressione di vita è connessa ai cicli di nascita e morte: ogni nascita, infatti, presuppone la “morte” di uno stato precedente. In questa apparente ambivalenza, la Grande Madre può diventare anche terribile, vorace, predatoria. È il suo “lato ombra”: è la caverna fredda e oscura e anaffettiva; è il vaso che non lascia più uscire il suo prezioso contenuto (che quindi non può crescere, svilupparsi, emanciparsi e diventare autonome; rimane invischiato in una relazione opprimente e vincolante o comunque mantiene tratti infantili, filiali), è la Madre Matrigna che non nutre, non si prende cura ma può uccidere, maltrattare. Non ama più, pensa solo a se stessa.

     Ecco una prima inversione di rotta nel percorso mitico, religioso e antropologico. Nel ragionamento di Galimberti scaturisce una svolta storicamente indiscussa, poiché egli riporta le celebri parole di Platone nel Timeo:

Noi uomini non siamo come le piante della terra, perché la nostra patria è il cielo, dove fu la prima origine dell’anima e dove Iddio, tenendo sospesa la nostra testa, ossia la nostra radice, tiene sospeso l’intero nostro corpo che perciò è eretto.

     Dall’adorazione della fertilità femminile, dalle simbologie del vaso e dell’albero, l’umanità si va separando per volgere lo sguardo verso il cielo. L’itinerario dell’uomo, lungo un tracciato millenario e irreversibile, progredisce dalla sfera terrestre al firmamento, dalle divinità ctonie a quelle uraniche, dalla terra-madre al cielo-padre: è l’allontanarsi dalla visione sensibile di tracce cariche di sostanza verso l’intelletto della loro essenza depurata dall’immaterialità. Il mito narra le tappe di tale sentiero, il graduale avanzamento dai culti della Grande Madre alla venerazione degli dèi dell’Olimpo; la filosofia è pronta a cogliere il messaggio profondo del cambiamento. Ma, alla luce dei millenni trascorsi, un simile genere di passaggio non è stato incontrovertibile, non ha annullato le origini, in quanto, da tempo, la materia ha ripreso importanza e la Terra continua a catturare attenzione con il surriscaldamento, i terremoti, le alluvioni, le attività dei vulcani.

     In certa misura, la filosofia avrebbe ancora un compito maieutico, materno: rappresenta un’unione non riscontrabile in un immediato scenario di applicazioni pratiche, piuttosto nella qualità di plasmare la ψυχή (psiuké) umana, agevolando la nascita del prezioso, famoso “senso critico”, oggi fondamentale se inserito nel contesto di un sistema teso, al contrario, a coltivare concetti espressi acriticamente da nozioni considerate già appurate.

     Dalle viscere dell’anima e della cultura, la filosofia rende possibile l’affiorare di un raziocinio operativo dove la ricerca è ogni volta condotta alla scoperta del mondo stesso da cui ha tratto origine, accogliendo l’individuo in un’apertura totale dal χάος preesistente (khàos, “disordine” o “lacuna”) alla struttura di ordine denominata κόσμος (kòsmos). In un tale status d’idee, nel κόσμος si imporrebbe la sua parola e, nel cammino quotidiano verso l’ignoto, da quasi tre millenni avanza la filosofia. Di certo, nell’orizzonte di un pensiero speculativo proiettato verso l’alto e rivolto al futuro, l’ambiente circostante e l’immanenza terrena sono garantiti dalle fattive radici della ragione, facoltà appartenenti all’uomo materiale.

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     Ma il pensiero non può essere giudicato solo figlio dei dati sensoriali, cioè qualcosa pertinente in esclusiva ai cinque sensi: dovremmo in tal caso supporre che le conoscenze effettive siano valide a patto di venir acquisite nell’arco sensibile, ritenendo di conseguenza vaghi i costrutti ideali frutto del meditare. Per fortuna, la storia ha dimostrato quanto il meccanismo logico-filosofico sia sostanziale anch’esso, coincidendo con processi generativi dell’apprendere gestiti fin dalle origini. Cosa resterebbe, altrimenti, dell’intero insieme della conoscenza, rielaborata riflettendo su dati concreti?

     Torniamo così all’antinomia indicata da Galimberti:

Dalla terra al cielo è dunque l’itinerario compiuto dall’uomo, nel suo lento passare dalla visione sensibile delle cose cariche di materia a quella intelligibile della loro essenza depurata dalla materia. Il mito racconta le cose come sono veramente andate: il lento passaggio dai culti della grande Madre ai culti degli dèi uranici; la filosofia coglie il senso di questo passaggio che è nella natura dell’uomo originariamente aperta alla visione.

     Nelle consuetudini primordiali – in specie nelle aree europee, mediorientali, indiane – incontriamo mitologie, leggende, ritualità rappresentative di un legame fra il regno della madre (terra) e il dominio del padre (cielo). Nella prospettiva storica, il tutto è dovuto a una serie plurimillenaria di contatti e conflitti capaci di avvicinare e mettere in relazione i gruppi agricoli e stanziali del bacino del Mediterraneo con i popoli delle steppe, ovvero i nomadi dediti all’allevamento nelle coste del Mar Nero, nell’Asia Centrale, nelle regioni dell’Arabia. Fra stratificazioni etniche tanto diverse talora prevale il contrasto, talvolta la coesione: questa gamma di discordie e di simbiosi si rivelerà all’altezza di modellare lo spirito delle grandi civiltà classiche – romana, ellenica, iranica, indiana – profondamente sincretiste e al contempo provviste al loro interno di robuste tensioni simboliche.

     Nel complesso sintetizzato dalla mitologia matura, le connessioni fra dèe terrestri e dèi celesti esprimono una cosmologia “dinergica” (emblema di dualismo), dotata di armonia e integrazione, in cui ognuno dei poli rimanda all’altro. La dinergia immanente è, ad esempio, iscritta nell’immagine dell’uovo (indice latente del progredire, del mistero antecedente all’essere), e nell’intreccio di uomo-donna, trascendenza-immanenza, arricchita dall’intreccio di tratti androgini ed ermafroditi, in alcune iconografie di dèi maschili, ad esempio Κρόνος/Saturno ed Ἑρμῆς/Mercurio.

     La simbologia degli dèi del cielo finisce per sovrapporsi alla galleria dei numi femminili della terra, comunque senza annullarla: quest’ultima, pure emarginata, continuerà ad informare di sé in maniera decisiva l’estro individuale, la tecnica artistica, le nuove istanze di fede.

     E sarà forte, allora, la nostalgia per quel periodo, ormai avvolto nella notte dei tempi, in cui il cielo fa la sua comparsa ma è ancora dipendente dalla terra, quando insomma la ridefinizione dell’uomo, la reinterpretazione del proprio posto nell’universo, transita ancora nella feconda contaminazione tra gli agricoltori residenziali, con le radici nella divina madre terra, e i popoli migranti degli allevatori, i quali alzano lo sguardo al cielo affinché le stelle indichino loro il cammino.

CINZIA BALDAZZI

 

 

Ringrazio Adriano Camerini per la collaborazione alla stesura del testo.

 

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE DI RIFERIMENTO

Carl Gustav Jung, Gli aspetti psicologici dell’archetipo della Madre, in “Gli archetipi e l’inconscio collettivo”, Opere, vol. IX, tomo 1, Torino, Bollati Boringhieri 1997, p.83

Marija Gimbutas, Il linguaggio della dèa, trad. Nicola Crocetti, Milano, Longanesi 1990

Marija Gimbutas, Le dèe viventi, trad. M. Doni, Milano, Medusa Edizioni 2005

Umberto Galimberti, Le origini del pensiero filosofico greco, in Emanuele Severino (a cura di), Storia del pensiero occidentale, vol. 1, Milano, Mondadori 2019, pp. 24-26

Anna Maria Cebrelli, Grande Madre: l’archetipo dell’origine femminile di ogni cosa, 12 maggio 2017, https://www.greenme.it/vivere/mente-emozioni/grande-madre-archetipo/

Massimo Donà, “Nomos” e singolarità, in “Quaderni di inSchibboleth”, vol. 1/2018, n.9, “Invisibile ed esperienza”, Roma, 2018

 

 

[1] Cinzia Baldazzi, romana, classe 1955, si è laureata in Lettere Moderne a “La Sapienza” in Storia della Critica Letteraria. È stata cronista teatrale negli anni ’70 e ’80 su quotidiani e periodici, quindi sulle testate online “Scenario” e “News Arte Cultura”. Collabora ai blog “On Literature” e “Alla volta di Léucade”, nonché alla rivista digitale “Euterpe”. Tra le pubblicazioni, Passi nel tempo (2011), commenti a quindici poesie di Maurizio Minniti; EraTre (2016), con il poeta Concezio Salvi e il pittore Gianpaolo Berto; Orme poetiche (2016), antologia di poeti curata da Pasquale Rea Martino; Duecento anni d’Infinito (2019), con Maurizio Pochesci, antologia poetica per il bicentenario dell’idillio leopardiano. Tra i riconoscimenti alla carriera, il “Labore Civitatis” all’interno dell’evento “Tra le parole e l’infinito” (2018). Svolge da tempo un’intensa e riconosciuta opera di diffusione della poesia attraverso divulgazione di nuovi autori, presentazione di libri, organizzazione di incontri tra poeti, coordinamento di reading, interventi critici in caffè letterari. Il suo blog http://lamemoriadiadriano.blogspot.com/ è dedicato a letteratura, arte e musica.

7 risposte a "“La Grande Madre e gli dèi del cielo”, saggio antropologico di Cinzia Baldazzi"

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  1. Saggio molto interessante che ha rimandato la mia mente agli studi universitari di etnologia e antropologia. Mi sono ricordata dei miti dei popoli dell’America, dagli indiani agli Aztechi, Maya e Incas. la Grande Madre con vesti di serpente, oppure quella degli indiani Navajos e Apache (madre di tutti gli esseri viventi). Ho ricordato le immagini di manufatti dei popoli dell’America che richiamano il disegno che sta sulla pelle dei rettili. In Europa, era molto vivo il culto della Grande Madre anche in Inghilterra all’epoca di Re Artù (l’isola di Avalon e le leggende collegate alla stessa, e la presenza della magia che si collegava al culto della Grande Madre – magia che diminuisce e sparisce nel tempo con l’abbandono di tale culto) che è stato ripreso da J.R.R.Tolkien nel Silmarillion (isola del continente immaginario Arda, chiamata Tol Eressëa che può avvicinarsi all’isola Avalon arturiana). Il Saggio di Cinzia Baldazzi mi ha anche inevitabilmente fatto pensare alla poetica leopardiana della Natura anche nel suo aspetto di “matrigna” e al “Canto del pastore errante dell’Asia”. In realtà, è assolutamente condivisibile che il cambiamento tra un culto volto alla deità femminile collegata alla terra sia avvenuto al momento in cui i pastori, guidando le loro greggi, abbiano sentito il bisogno di alzare gli occhi al cielo per trovare risposte non soltanto sulle stelle da seguire durante i loro spostamenti ma anche sui misteri dell’universo che li circondava, fino a pensare che oltre alla Dea Madre (Terra) potesse esistere anche un Dio padre (Cielo). Complimenti a Cinzia Baldazzi e ad Adriano Camerini!

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  2. Cinzia Baldazzi, in questo stimolante saggio antropologico, con incursioni importanti in campo filosofico, nonché nel simbolismo iconografico e nell’etimologia, ripercorre l’iter plurimillenario delle umane culture nel loro processo di affrancamento dalle leggi di natura. La studiosa, con dovizia di riferimenti e citazioni, documenta il passaggio dalle civiltà primeve ed arcaiche, fondamentalmente ctonie e a sfondo maternale, alle civiltà storiche, dominate dalla psicologia mascolina dell’ulteriorità e della conquista, dell’intelligibile in guerra col sensibile, giunte agli attuali livelli insostenibili del disprezzo sconsiderato per la natura. L’auspicio della scrittrice sembra ovviamente essere quello di una ricomposizione armonica del dissidio, giungendo a quella ricomposizione dei due archetipi (mascolino e femminino) che in realtà – a mio parere – appartiene al bagaglio ancestrale di ogni umana cultura, fondato sul bifrontismo e sulla dualità “materia/spirito”, come testimoniato ampiamente dai culti della morte/rinascita, o da quelli espressamente “gianici”, prenuragici, attentissimi alla collaborazione e all’allineamento “Terra/Cielo”.

    Franco Campegiani

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    1. Questo commento di Franco Campegiani è, come al solito, capace di analizzare nel profondo i brani considerati e accrescerne, moltiplicarne quantità e qualità delle informazioni.

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  3. I BAMBINI DORMONO SCOPERTI

    I bambini dormono sotto il Sole.
    Dormono scoperti:
    senza tetti, senza lenzuola.
    E il Sole vigila
    come farebbe un padre.
    Padre e Madre Sole.
    Ma la nostra protezione
    non dà scampo. Sono nostri
    e l’ultima parola spetta a noi.
    Ma chi? Chi, contemporaneamente,
    sa essere materno
    e paterno come lui?
    Chi può dire di accarezzare loro
    il viso con il fuoco
    e non bruciarli?
    E piangono i bambini
    quando li riportiamo in casa,
    quando non vogliono e debbono dormire.
    E poi sorridono, ci sorridono.
    Ci amano.
    E ci perdonano

    (da “Titiwai” – Giuliano Ladolfi Ed. – Febbraio 2019)

    Sandro Angelucci

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